La sfida di Schlein, costruire l’unità nei «luoghi che non contano»

Non sarà lo scossone, auspicato o no dal consigliere del Quirinale. Ma non è vero che sia stato un voto regionale senza scosse, come ha titolato per inerzia ieri il primo quotidiano italiano. L’ultimo giro delle elezioni regionali a pezzetti ha confermato l’ondata di astensionismo, la stanchezza democratica, effetto di venti o trent’anni di antipolitica degli elettori arrabbiati e delle élite disincantate, vedi il professor Burioni che dopo aver detto addio ai social ha annunciato ieri il prossimo abbandono delle urne. Ma c’è la novità di un voto politico, omogeneo da Nord a Sud, che segna lo stallo nell’elettorato e nella società (non ancora nei gruppi di potere) della destra di Giorgia Meloni, da tre anni al governo, e l’avanzata, a piccoli passi, della coalizione e di una leadership alternativa. In Veneto i sondaggi davano Fratelli d’Italia alla pari con la Lega, invece si è aperto un baratro, in Campania si calcolavano undici punti di distacco tra Fico e Cirielli, con il viceministro pezzo da novanta del partito meloniano in rimonta, invece sono diventati venticinque. Il pieno di applausi delle platee cielline, cisline, confindustriali, di copertine internazionali e di conformismo nazionale, si è capovolto per Meloni nelle urne vuote nelle regioni del sud. È come se la leader che aspira a essere tra i grandi del mondo si ritrovi all’improvviso priva di quella radice popolare che ha sempre vantato, con un 31 per cento nei sondaggi che non è un blocco sociale e che si può sgonfiare all’improvviso. È grazie al vuoto nella società, sia chiaro, che Meloni può pensare di vincere il referendum sulla giustizia, può aspirare al bis nel 2027 e coltivare l’ambizione di fondare una Repubblica presidenziale. Ma il saltello anticomunista di Napoli le si è ritorto contro. Schlein&Conte, festa a Napoli: «Adesso non saltellano più» La favorita Schlein All’opposto, fin dalla sua elezione a segretaria del Pd a sorpresa (per i pronostici del palazzo politico e giornalistico) Elly Schlein si è dovuta muovere in mezzo ad attacchi di ogni tipo. I nemici esterni e i rivali interni. La vecchia guardia e le giovani promesse. I padri nobili e le venerate maestre della buona comunicazione. In più, un gioco della demolizione personale, praticato non solo a destra. Con questo plotone di esecuzione quotidiano, nessuno avrebbe scommesso che sarebbe arrivata fin qui. E invece Schlein è andata avanti. A lungo mi è sembrata un’equilibrista che cammina sul filo sopra una vasca infestata di piranha. Ora, con il voto di Puglia, Campania e Veneto, la leader del Pd è entrata nella vasca. E si è mangiata i piranha, uno a uno. Piaccia o no, Schlein è adesso la favorita per la candidatura a premier nel 2027 ed è inamovibile dalla guida del partito, come ha capito prima del voto anche chi nella vecchia guardia non la ama, ma sa leggere la politica più dei giovani virgulti da convegno termale. Lo ha compreso anche Giuseppe Conte, il favorito nelle primarie secondo i sondaggi del giorno prima, ma sotto il dieci per cento perfino in Campania, ha lanciato il suo cantiere Cinque stelle, che vuol dire rinchiudersi in una comfort zone. Il cantiere vero va invece costruito, e rapidamente, fuori dai partiti, dai raduni di corrente, dagli apparati mediatici che ogni giorno lanciano e divorano nuove candidature. Per Schlein si apre la grande occasione, da non perdere, per dimostrare che la sua capacità di costruire l’unità dentro il suo partito e tra i partiti della coalizione è una carta da giocare anche per la società italiana attraversata da mille lacerazioni, in cui la destra alimenta le tifoserie perfino sul destino della famiglia nel bosco. Fico bene, Decaro a valanga. Schlein fa rotta verso Napoli, la sua scommessa più difficile I «luoghi che non contano» Costruire l’unità nei «luoghi che non contano», come li chiama Andrés Rodríguez-Pose (La vendetta dei luoghi che non contano, Donzelli), perché «il malcontento e la crescita dei delusi non sono meteoriti caduti da un altro pianeta», ma prodotti dalle disuguaglianze, dalle ingiustizie non colmate. Costruire l’unità con i corpi intermedi, le imprese e i mondi del lavoro, i cattolici non clerico-melonizzati, i movimenti, gli intellettuali, soprattutto i più critici. Come il Lindbergh della canzone di Fossati, «difficile non è partire contro il vento, ma casomai senza un saluto». Chi sa compiere il miracolo di unire il Pd e perfino la coalizione progressista divisa da anni, da Conte a Renzi, può riuscire a unire anche il paese. E trasformare i luoghi che non contano nel laboratorio di un progetto diverso dal vuoto che oggi circonda Giorgia Meloni. Lo sport di attaccare il Pd, ma nessuno ha una ricetta