Tutto parte dalla luna. Ricordo il giorno in cui il mio bambino disse la sua prima parola. La stagione era mite, la sera aprivo la finestra e gli facevo vedere il cielo, gli dicevo ecco il cielo, ecco le stelle, ecco la luna, moon. “Moon” ha un suono morbido, facile. Una sera il bambino puntò il dito al cielo e disse “moon”.

Nei mesi successivi passammo dall’interesse per la luna all’interesse per i libri sui pianeti. Poi ai video sul sistema solare, e alle canzoni per bambini in cui ogni pianeta si presenta: «Sono Urano, il pianeta più puzzolente».

Infine, approdammo ai razzi spaziali, ai documentari su come si costruiscono e su come si fanno partire per lo spazio. La magia del conto alla rovescia colpì il mio bambino in maniera particolare. Dieci, nove, otto… Se vai da dieci a zero, il razzo parte. I numeri sono la magia che fa partire i razzi.

Oggi mio figlio ha imparato a contare da uno a dieci, gli è bastato invertire il conto alla rovescia, e proprio in questi giorni inizia a usare il pallottoliere come giocattolo.

Se mio figlio fosse un modello della storia dell’umanità, diremmo che i numeri nacquero dalla fascinazione degli umani per la luna. Moon.

Diremmo anche che per un certo tempo “l’umanità” (mio figlio) credette che gli eventi con un fondamento tecnologico complesso, come la partenza dei razzi, fossero determinati dalla magia del conto alla rovescia.

Ora, il fatto che “l’umanità” (sempre intesa come mio figlio) creda a cose del genere non toglie nulla alla realtà tecnologica dei razzi e alla perfetta descrivibilità del loro funzionamento da parte di chi invece li ha studiati.

La poesia del mondo visto tramite gli occhi di mio figlio non toglie nulla alla realtà delle soluzioni ingegneristiche. Ma anche: questa realtà non toglie nulla all’incanto dello sguardo inesperto di un bambino.

Mio figlio crescerà, andrà a scuola (per ora va all’asilo), e il conto alla rovescia smetterà di essere magico. Resterà forse in lui la dolcezza al pensiero dei viaggi spaziali.

Anzi, ipotizziamo per un attimo che lo spazio diventi una sua passione, e che decida un giorno di farne una professione: in tal caso, diremo che la passione adulta per la propulsione spaziale ha avuto, in lui, un’origine spirituale. Questo meccanismo non è strano: una passione razionale che nasce dallo spirito.

Ignoranza e mistero

L’aneddoto – mio figlio e la parola “moon” – mi è venuto in mente varie volte mentre leggevo La tecnologia è religione di Chiara Valerio.

Un libro che ha suscitato molta curiosità. E che ha anche raccolto qualche critica, soprattutto da parte di chi non condivide il nocciolo della questione, e cioè che la tecnologia sia (o rischi di diventare) una religione. Ma andiamo con ordine.

L’aneddoto “moon” mi è venuto in mente perché Chiara Valerio pensa spesso ai bambini e alla loro istruzione. Fra le pagine del libro non mancano i riferimenti all’infanzia dell’autrice, ai suoi nipoti, alla formazione, alla scuola pubblica.

L’infanzia, credo, è il luogo dell’ignoranza, delle immagini misteriose e delle domande. L’infanzia è il luogo della complessità, perché, se sei piccolo e non sai niente, tutto risulta incomprensibile. Ma se non sai niente, eppure devi sopravvivere, ti devi fidare. Dunque l’infanzia è il luogo della fiducia (e della fede, che è diversa però dalla fiducia, come illustrerò a breve).

Oggi viviamo in un mondo complesso, si dice. Talvolta mi pare che siamo dei bambini cresciuti, perché non possiamo conoscere tutto, non possiamo studiare tutto, eppure sembra che tutto influenzi le nostre vite.

Scienza, tecnologia, medicina. Economia, sistemi finanziari, banche. Dobbiamo fidarci degli operatori del settore, e la fiducia è importante, perché grazie a essa il sistema può funzionare. La fiducia è credito.

Scelgo anzi di parlare di banche perché credo sia un esempio chiaro, in questo momento storico. Alla comunità umana le banche servono, perché tanto per dirne una tutti beneficiamo, direttamente o indirettamente, del sistema del credito.

Ma perché le banche stiano in piedi, è necessario che chi deposita i propri soldi sia convinto del fatto che potranno essere prelevati in qualsiasi momento.

Affinché chi deposita i soldi li lasci lì depositati per davvero, serve la fiducia nell’idea che la banca glieli possa restituire. Per restare in questa relazione con la banca, insomma, devo sapere di poter andar via quando vorrò (è tutto molto romantico). Se la fiducia salta, si avrà la corsa agli sportelli.

La fiducia è stupida?

APN

Una domanda a questo punto va fatta: siamo stupidi a fidarci, la nostra fiducia è stupida, i colpevoli siamo anche noi? Se la nostra banca fallisce, è colpa nostra perché dovevamo analizzarne il bilancio e capire come stavano le cose? In realtà non è colpa nostra, perché siamo parte di un sistema, e in questo sistema il nostro contributo intellettuale è proprio la fiducia che accordiamo. La fiducia è necessaria e razionale.

Siamo nel mondo della teoria dei giochi, dell’interazione strategica fra agenti razionali. La fiducia esiste in noi perché, pur non potendo conoscere tutti i dettagli dell’operatività delle banche, facciamo parte di una società che nel tempo ha decretato di aver bisogno degli istituti di credito, e successivamente ha sviluppato sistemi di regolamentazione (sempre molto migliorabili) che ci garantiscono che nella peggiore delle ipotesi sarà possibile salvare buona parte dei nostri soldi.

La nostra fiducia non è stupida, insomma, ma è storicamente, utilitaristicamente e persino filosoficamente motivata. Non è una fede, non è cieca.

Ha delle giustificazioni: pur non sapendo tutto, agiamo da esseri pensanti, sia dal punto di vista individuale, sia dal punto di vista della collettività. Il problema è far sì che le banche non si lascino prendere dall’euforia irrazionale, ma questo non ha a che fare con la nostra stupidità.

Le situazioni in cui pur non sapendo tutto agiamo da esseri pensanti sono molte. Ma non vanno confuse con le situazioni in cui, sempre non sapendo tutto, agiamo invece da esseri non pensanti. Agiamo per fede, insomma, che è diversa dalla fiducia. Agiamo come sedotti da un carisma.

Da tempo siamo abituati a pensare che se devi trasformare il mondo non hai più bisogno della religione, bastano la scienza e la tecnologia.

Eppure gli imprenditori della Silicon Valley, quando non sono impegnati a scappare da una banca, parlano col tono di chi voglia trasformare gli aspetti fondamentali dell’esistenza. Parlano di argomenti che un tempo associavamo alla spiritualità. Cosa significa avere un corpo finito? Possiamo superare la nostra fragilità e fermare l'invecchiamento? Cosa significa essere connessi con gli altri? Cosa significa costruire infrastrutture (i social) che promettono di unirci e che invece diventano il motore di tante divisioni?

Il culto della condivisione

L’altra sera ho fatto vedere a mia figlia grande The social network, il film su Zuckerberg. Lei è rimasta colpita non tanto dall’intelligenza del personaggio, quanto dalla sua oscurità e stranezza. Facebook, partendo da un giochetto universitario, quasi una favola, ha fatto proseliti molto rapidamente ed è stato il primo social a dominare la nostra esperienza emotiva. Oggi siamo utenti e schiavi di molti altri social, siamo seguiti e siamo seguaci.

Ci indigniamo, ma non riusciamo a capire perché siamo finiti in questa situazione. E se tutto questo ci serva, e a cosa. Non solo (e non tanto) non conosciamo i social tecnicamente, ma abbiamo la sensazione che ormai sfuggano di mano a chi li ha creati o anche solo li possiede: Elon Musk, da quando ha comprato Twitter, ci sembra meno intelligente (ah, parliamo di uno che sogna di portarci su Marte per espandere i nostri orizzonti).

Sentiamo di ricevere delle pressioni a restare connessi (ma pressioni da chi?), ci sentiamo inglobati in un culto collettivo della condivisione. Quando decidiamo di lasciare un social, scriviamo un post con le nostre motivazioni, come se dovessimo spiegare perché non crediamo più.

Sicuramente siamo distanti dalla fiducia razionale in un sistema. A tratti stiamo bene, però. Forse speriamo che un giorno l’algoritmo risolva qualche enigma della realtà. Chiara Valerio non sbaglia: la tecnologia è religione.

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