La gestione della “prima ondata”

Sin dall’inizio della pandemia, le misure di contrasto al virus hanno comportato limitazioni a diritti e libertà costituzionali. Ma lo stato di diritto non può essere travolto dallo stato di emergenza. I principi di proporzionalità, idoneità e necessarietà vanno sempre rispettati quando si comprime la sfera personale.

Ogni restrizione va commisurata alla gravità della situazione su cui interviene; dev’essere adeguata al fine cui è indirizzata e la meno penalizzante possibile. Non basta che sia utile, dev’essere necessaria.

Inoltre, serve trasparenza, per consentire a chiunque di verificare il bilanciamento tra i diversi interessi che è alla base delle decisioni, quando qualcuno di essi dev’essere sacrificato.

Nella “prima ondata” l’osservanza di questi principi è parsa mancare. L’assenza di trasparenza circa i criteri in base ai quali si valutava la situazione sanitaria rendeva impossibile accertare la proporzionalità delle misure ad essa correlate.

La “sproporzione” era nei fatti: sul territorio nazionale la situazione epidemiologica era diversificata, con zone martoriate dal virus e altre solo sfiorate, ma le restrizioni sancite erano ovunque le stesse.

Allora si disse che lo tsunami sanitario non consentiva alternative al lockdown generalizzato e che, nel bilanciamento degli interessi coinvolti, la tutela della salute doveva considerarsi preminente rispetto a quella di libertà e diritti diversi.

Eppure, l’ordinamento non prevede deroghe ai principi citati nemmeno in stato di emergenza. E, quando l’emergenza finisce, restano gli sfregi al diritto.

Cos’è cambiato nella seconda ondata

Cos’è cambiato nella seconda ondata? L’ultimo Dpcm prevede misure diverse a seconda delle differenti aree di rischio in cui è suddiviso il territorio nazionale e variabili al variare della situazione sottostante.

Le regioni monitorano la condizione epidemiologica e la tenuta del sistema sanitario, raccogliendo dati che sostanziano 21 indicatori e inviandoli a un centro di coordinamento. Quest’ultimo li analizza, li valida e li incrocia mediante un algoritmo, traendone un giudizio di pericolosità della situazione.

A seconda di tale giudizio, le regioni sono inserite nell’una o nell’altra area di rischio, cui sono automaticamente connesse determinate restrizioni, commisurate – cioè proporzionate, in base a una valutazione ex ante - al livello del rischio stesso.

Dunque, l’ultimo Dpcm sovverte il paradigma precedente. Il bilanciamento fra gli interessi coinvolti oggi è effettuato, in via preventiva, modulando limitazioni di libertà e diritti in relazione alle diverse situazioni epidemiologiche; è differenziato per territori, a seconda dell’inclusione degli stessi in una certa area di rischio, in relazione a indicatori prefissati; è “mobile”, poiché il ministro della salute, con frequenza almeno settimanale, verifica il permanere dei presupposti della classificazione di ogni regione in un’area di rischio, e al mutare della classificazione cambiano pure le relative misure restrittive.

Sembrerebbe un sistema «oggettivo», come affermato dal presidente del Consiglio Conte in parlamento, anche se farraginoso: i 21 indicatori, suddivisi in tre categorie (capacità di monitoraggio; capacità di accertamento diagnostico e di gestione dei contatti; stabilità di trasmissione e tenuta dei servizi sanitari) che rappresentano parametri per la valutazione del rischio, sono elencati in un decreto del ministro della Salute del 30 aprile scorso.

Nel medesimo decreto sono indicati due diagrammi di flusso che, mediante l’incrocio dei dati, delineano in modo logico il rischio legato alla probabilità di infezione/trasmissione e l’impatto, definendo una matrice di stima della rischiosità.

Le falle del sistema 

Tuttavia restano opachi alcuni passaggi dell’algoritmo che combina gli indicatori. Né è dato sapere quale sia il peso dei diversi indicatori nell’apprezzamento finale del parametro che concorrono a definire, come si valutino quelli non numerici, in base a quale modalità il centro di coordinamento rileva dati imprecisi. Di conseguenza, non si può vagliare compiutamente la metodologia usata per trasformarli e sintetizzarli.

Nei giorni scorsi, il ministero della Salute ha pubblicato le tabelle della settimana 19-25 ottobre, contenenti i dati per regioni. Ma è una trasparenza insufficiente.

Non basta rendere disponibile l'accesso ai dati del monitoraggio, se non si fa chiarezza sull’intero sistema decisionale che definisce l’appartenenza di ogni regione a una certa area di rischio, facendo così scattare in automatico misure che incidono su libertà e diritti.

Un processo trasparente è come una ricetta: con l’uso degli stessi ingredienti può essere replicata, producendo i medesimi risultati. Quindi, basta chiedere a esperti se, utilizzando gli stessi dati forniti del ministero, mediante i passaggi indicati nei diagrammi di flusso, sarebbero in grado di arrivare alla medesima classificazione delle regioni. Le risposte sarebbero interessanti.

L'opacità discrezionale

Quali sono le conseguenze di un processo opaco, quindi discrezionale, cioè non oggettivo per definizione? Non può essere valutata l'esattezza dell’inserimento delle regioni nell’una o nell’altra fascia di rischio e, di conseguenza, l’effettiva proporzionalità delle limitazioni di libertà e diritti rispetto alla condizione sanitaria della regione.

Se pure l’impostazione del governo nell’affrontare la pandemia è stata sovvertita tra la “prima” e la “seconda ondata”, si resta comunque al punto di partenza: senza la trasparenza necessaria a consentire un vaglio di proporzionalità delle misure rispetto al livello di rischio di ogni regione, resta carente pure la motivazione sottostante all'imposizione misure stesse.

Circa la pretesa oggettività di un sistema di elaborazione di dati talora incompleti, imprecisi e temporalmente sfasati, basterebbe richiamare l’intervento della procura di Genova, teso a verificarne la correttezza.

Modulare i provvedimenti restrittivi sul territorio, con verifiche a scadenze prefissate e un bilanciamento “mobile” tra diritti, è la strada giusta. Ma se i decisori vogliono essere accountable, cioè rendere conto, siano trasparenti fino in fondo. Peccato che, dopo mesi di pandemia, ancora non lo abbiano capito.

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