Ogni crisi dei Cinque stelle produce sempre lo stesso esito: nuove, farraginose, strutture burocratiche interne che devono indicare una svolta senza però cambiare nulla. Qualcuno ricorda i “facilitatori del team del futuro”? Ovviamente no, ma erano la segreteria politica annunciata a più riprese da Luigi Di Maio tra fine 2019 e inizio 2020, un tentativo di dare una patina di gestione collegiale a un Movimento verticale.

Tentativo fallito, tanto che poco dopo Di Maio si è dimesso da capo politico. Non per comandare meno, ma per comandare meglio, al riparo dalle polemiche quotidiane, forte della sua presenza radicata in ogni governo (Conte 1, Conte 2, Draghi e chissà quanti altri).

Ora la tregua tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte ha prodotto l’ennesima architettura istituzionale tanto barocca quanto pensata per essere innocua. L’ex premier si sceglie una segreteria politica, ma Grillo resta garante dei valori e indica i membri del collegio dei probiviri, quelli che decidono sulle (frequenti) espulsioni.

Basta guardare l’attualità per capire che non può funzionare: la scelta di approvare la riforma della Giustizia della ministra Marta Cartabia, che ribalta molti pilastri di quella pentastellata di Alfonso Bonafede, è una questione politica o di valori? Spetta a Conte o a Grillo scegliere?

Decideranno insieme, spiegano gli esegeti delle dinamiche interne ai Cinque stelle. Ma quale sia il giudizio di Grillo su Conte si può leggere in un post che, da quasi due settimane, continua ad aprire il blog del garante: Conte “non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione”.

Ora, si può capire che Grillo accetti di tollerare Conte per evitare l’esplosione del Movimento. L’ex premier deve aver rinunciato all’orgoglio, o forse ha capito che la strada del partito personale era troppo impervia e rischiosa.

Di certo questa convivenza forzata non entusiasma nessuno, la crisi sembra soltanto rimandata, il vuoto di idee del Movimento non è stato certo riempito dal dibattito sulle regole interne. E questo è un problema per i Cinque stelle, ma anche per il Pd che, con scarso entusiasmo, si è rassegnato all’idea di un centro sinistra che includa anche il Movimento ormai ex-populista.

Matteo Renzi, come Matteo Salvini e altri – si è accodato pure Carlo Calenda via Twitter – sembrano voler cogliere l’occasione offerta dalla debolezza dei Cinque stelle per lanciare l’attacco alla loro misura più nota, il reddito cittadinanza.

Sarebbe veramente ingiusto, però, che a pagare il conto dell’incapacità dei vertici pentastellati di rilanciare la loro creatura siano quei 3,7 milioni di italiani poveri – tra cui 962.000 minori -  che nel 2020 hanno ricevuto in media 531 euro, secondo i dati del nuovo rapporto annuale Inps.

Quella in difesa del reddito di cittadinanza è l’unica battaglia che i Cinque stelle dovrebbero avere ancora voglia di combattere che dovrebbe trovare anche il Pd pronto a schierarsi (dopo anni di rimpianti per aver lasciato il tema ai grillini, quando la prima misura anti-povertà importante era proprio targata Pd).

Se i Cinque stelle cederanno anche sul reddito, il loro declino non sarà soltanto una tragica commedia ma un serio problema concreto per milioni di italiani in condizioni di fragilità.

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