È molteplice il cortocircuito della diplomazia economicistica e privatistica del tycoon: non solo per i suoi effetti corruttivi sulla democrazia statunitense ma anche perché rischia di mandare in tilt le già difficilissime dinamiche geopolitiche mediorientali
Come otto anni fa, Donald Trump ha scelto l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo come destinazione del suo primo viaggio presidenziale fuori dai confini nazionali. Perché? Con quali obiettivi? E con quali evidenti e problematiche contraddizioni?
Le coordinate della politica estera trumpiana sono abbastanza basiche e facili da definire. Si riassumono in una declinazione molto economica e “transazionale” di questa politica, per la quale non esistono alleati (o avversari) permanenti e tutto è subordinato da un lato a una definizione specifica e molto economicistica dell’interesse nazionale e dall’altro al tentativo – di Trump, della sua famiglia e di alcune figure a lui vicine – di trarre il massimo profitto possibile da questo nuovo quadriennio presidenziale.
Relazioni viziose
Interesse generale, inteso come capacità di attrarre investimenti e capitali, e interesse particolare s’intrecciano quindi inestricabilmente, in una relazione simbiotica e viziosa, dove gli effetti corruttivi sulla democrazia statunitense sono quasi ineluttabili. Qualcosa che vediamo appunto bene in questo viaggio di Trump. Il cui scopo fondamentale è stato quello di attirare (e ostentare) gli investimenti negli Usa di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi. E che, contestualmente, ha consolidato le opache relazioni economiche tra questi paesi e l’azienda Trump, quella “Trump Inc” che in modo ormai sfacciato sta cercando di lucrare sul ruolo politico del patriarca, Donald.
Scopriremo nel tempo se le cifre sono davvero quelle iperboliche esibite dal presidente, ma è chiaro che i paesi del Golfo – ricchi di capitale e da tempo impegnati in uno sforzo di diversificazione delle loro economie – sono disposti a sovrainvestire in alcuni settori tecnologici statunitensi, l’intelligenza artificiale in particolare. Per il ritorno economico che questi investimenti paiono poter garantire. Ma anche per consolidare la relazione speciale con Trump e la sua America.
Con l’obiettivo di ottenere in cambio garanzie securitarie, accesso a tecnologia sensibile – soprattutto in ambito militare – e condivisione di strategie di stabilizzazione regionale, che passano attraverso l’abbandono di progetti radicali, su tutti quelli di colpire l’Iran o di sostenere un cambiamento di regime a Teheran. E con la disponibilità a destinare una parte piccola ma tutt’altro che insignificante di questi investimenti alla “Trump Inc”.
Quattro anni fa
Fu il fondo sovrano saudita quattro anni fa a fornire un miliardo e 800 milioni di dollari all’equity di Jared Kushner, il genero di Trump che durante la sua prima amministrazione gestì il dossier mediorientale. Ed è una società emiratina – presieduta dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale del paese, Tahnoun bin Zayed Al Nahyan – a investire oggi 2 miliardi di dollari nella piattaforma di cryptovalute Binance per il tramite della compagnia World Financial Liberty dei tre figli di Trump – Don Jr. Eric e Barron – e di quello del suo inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff.
Si tratta di conflitti d’interessi che lasciano letteralmente senza fiato. Ma che non sorprendono, se consideriamo appunto il passato e il presente di un presidente che non vede alcun problema nemmeno nell’accettare la “donazione” da parte del Qatar di un aereo del valore di 400 milioni di dollari.
È questo il primo, evidente cortocircuito della diplomazia, economicistica e privatistica, di Donald Trump: i suoi effetti corruttivi su una democrazia, quella statunitense, già in patente sofferenza. Il secondo rimanda invece alle dinamiche geopolitiche mediorientali.
Questa relazione speciale con i paesi del Golfo entra almeno in parte in rotta di collisione con quella storica con Israele. La cui destra al governo può condividere alcuni interessi economici ad avere buoni rapporti con tale paesi, ma che su molti altri dossier – a partire ovviamente da quello iraniano – ha oggi posizioni assai diverse.
E le cui politiche su Gaza e Cisgiordania rendono di fatto impossibile una qualsivoglia distensione con l’Arabia Saudita senza la quale è inimmaginabile una stabilizzazione del Medio Oriente.
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