Comunque finisca lo scontro tra Italia viva e la maggioranza cui appartiene, tra Matteo Renzi e Giuseppe Conte, la vera crisi conclamata è quella che riguarda il Recovery Plan, cioè la lista di interventi che l’Italia vuole finanziare con i fondi di Next Generation Eu.

Nella bozza del piano che è entrato ieri sera in Consiglio dei ministri si legge che siamo ancora parecchio lontani dal punto di partenza: «La presentazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) necessiterà di una più precisa definizione delle riforme e delle strategie di settore connesse al piano e di ulteriori passaggi politico-amministrativi che consentano di finalizzare le progettualità e le tempistiche previste, attraverso l’individuazione dei soggetti responsabili, delle attività da compiere e delle modalità operative di lavoro e di coordinamento delle amministrazioni e degli attori istituzionali a vario titolo coinvolti». Tradotto: sappiamo, più o meno, cosa vogliamo fare ma non abbiamo idea di quando, come e con chi farlo.

La crisi lunga un mese

Il risultato di questo lungo mese di crisi, iniziato con la bozza precedente del 7 dicembre, è misto. Da un lato si è perso soltanto tempo, la prima scadenza per mandare i piani alla Commissione a Bruxelles è il 15 febbraio. Se sforiamo, perdiamo l’occasione di avere un primo responso sui progetti per adeguarli in tempo per la scadenza vera di metà aprile.

Ma il mese di crisi ha anche prodotto un impatto positivo sulla bozza di piano, che dimostra come una discussione aperta e nel merito avrebbe potuto accelerare il processo e produrre risultati migliori dei negoziati riservati che il governo ha mandato avanti per mesi. Senza che neppure i ministri fossero ben consapevoli della sintesi prodotta da palazzo Chigi di raccordo con il ministro per gli Affari europei Enzo Amendola e quello dell’Economia Roberto Gualtieri.

Gli investimenti sono ora sopra il 70 per cento, gli incentivi (cioè i bonus) sono scesi al 21 per cento, la cifra complessiva che ora il governo vuole allocare si è gonfiata da 192 a circa 210 miliardi, ma in gran parte è un’illusione ottica, come spiega l’analisi del Forum disuguaglianze e diversità animato dall’ex ministro Fabrizio Barca: è un eccesso temporaneo motivato «sia con l’aspettativa che nelle prossime settimane una parte de i progetti si rivelerà non attuabile, sia con l’obiettivo (tutto da verificare) di integrare i fondi pubblici con i fondi privati».

I regali all’Eni

Quel minimo di dibattito pubblico che si è aperto sulle bozze precedenti del piano ha prodotto anche altri risultati: sono spariti, per esempio, gli interventi che ricalcavano parola per parola i progetti di investimento della transizione verde dell’Eni.

Come denunciato da Domani, si trattava di 3,1 miliardi destinati dal Pnnr al gruppo petrolifero per finanziare progetti “green” già annunciati al mercato, dunque già programmati. Un regalo che ora non si trova più nelle 172 pagine del piano, anche se fonti del governo suggeriscono che i fondi per l’Eni hanno semplicemente cambiato nome e ora sono accorpati in altre voci più generiche, tipo “progetti a bando di economia circolare” oppure “transizione ecologica nel Mezzogiorno – Progetti da individuare”.

Gran parte del documento è di difficile interpretazione, si tratta in gran parte di titoli, più che di progetti. Quasi mai viene indicato qual è l’obiettivo da raggiungere. Il Forum disuguaglianze denuncia che un numero assai elevato di progetti al momento manca di indicare i risultati attesi o, cosa ancora più grave, confonde questi con le realizzazioni dei progetti stessi.

Obiettivi e risultati

Gli incentivi alle imprese che risultato devono produrre? E i 19 miliardi per la “transizione 4.0”? Non si sa: il governo sembra considerare come un successo riuscire a elargire i soldi, non c’è quasi mai indicato un obiettivo misurabile da raggiungere. E’ un po’ lo stesso problema del reddito di cittadinanza: a parte la velleitaria idea di a “abolire la povertà”, nessuno ha ma specificato a cosa servisse (a ridurre il numero di poveri assoluti? A farli lavorare? A farli uscire dalla povertà in modo strutturale?). E dunque è impossibile dire se abbia funzionato. Il problema del reddito di cittadinanza è moltiplicato per cento, perché lo stesso approccio viene seguito per quasi tutto il Pnrr.

Ci sono le eccezioni: per gli asili nido, per esempio, ci sono 3,6 miliardi e un risultato atteso misurabile, cioè la creazione di 622.500 nuovi posti entro il 2026. Così l’Italia riuscirebbe a recuperare il divario rispetto alla media europea e ai paesi comparabili. Non è difficile: se nel 2026 ci saranno 622.500 posti in più, i soldi saranno stati spesi bene, altrimenti sarà un fallimento.

Ma per i grandi aggregati di spesa questo sforzo non viene fatto. Sarà impossibile verificare se i 28,3 miliardi per alta velocità ferroviaria e manutenzione stradale verranno spesi nel modo giusto, cioè per raggiungere i risultati desiderati. Semplicemente perché non è previsto alcun risultato diverso dalla mera spesa, in una versione un po’ estrema del paradosso evocato da John Maynard Keynes (in tempi di recessione è utile anche soltanto che lo stato paghi operai per scavare buche e altri per riempirle, per riattivare la crescita). A cosa serve mettere l’equivalente di una legge finanziaria in alta velocità al Sud, dove la domanda è bassa? Mistero.

Nelle sue critiche al governo Conte, il leader di Italia Viva aveva posto anche molte questioni di merito sul piano, alcune hanno avuto risposta, altre no e quel minimo dibattito che si stava aprendo sui contenuti del più grande piano di investimenti della storia repubblicana è stato oscurato dalla solita rissa sulle poltrone. E intanto il tempo passa.

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