Tutte le volte che leggo di una violenza su una donna, spesso senza nome e cognome, o solo col nome proprio, o col nomignolo o altre caratteristiche, e certe volte è per cautela, ma certe altre le donne sono morte  – come d’altronde accade quando leggo della prima rettrice in un ateneo italiano (Antonella Polimeni a La Sapienza, Tiziana Lippiello a Ca’ Foscari, per esempio), di scienziate vincitrici di Nobel (Emmanuelle Charpentier, Jennifer Doudna, per esempio) o di una scrittrice che vince lo Strega (Helena Janeczek, per esempio) – mi chiedo quale sia il problema, e perché non si riesca a risolvere.

Non posso ammettere che noi, la specie umana, coincidiamo con questa tragedia fisica e semantica. Che la violenza sulle donne sia, insomma, una caratteristica di specie come, per esempio, il linguaggio. Non riesco a pensarlo, e non voglio. Non riesco e non voglio anche perché siamo a un punto della nostra storia in cui i nostri comportamenti – addirittura il virus che ci affligge dall’inizio del 2020, e forse da prima – sono eminentemente culturali.

Siamo a un punto in cui, se è vero, e per quanto è vero, che la nostra natura e la nostra cultura si sovrappongono, dobbiamo poter eliminare la violenza sulle donne da un punto di vista culturale. E dunque torniamo al linguaggio, e ai numeri. Raccontare, e contare. E prima di raccontare. Dire e capire.

La violenza ha a che fare con l’incapacità di comprendere la differenza tra un No e un Sì? Con l’impossibilità a valutare la differenza tra un sorriso e un invito? È una questione di prossemica, gesti che non significano la stessa cosa per chi li compie e per chi li interpreta? È una faccenda di grammatica? Ovviamente, in un linguaggio, di parole e corpi, fatto di superlativi, ingiurie e emoticon e ostensioni, le sfumature diventano questioni da linguisti. E in effetti c’è anche questo, la perdita di sfumatura, la contrazione del tempo. E poi c’è altro.

A oggi, io non ho subito alcuna violenza fisica, ma ho subito, da parte di alcuni uomini aggressioni verbali, ganascini, diminutivi, nome proprio sbagliato, omesso o volutamente storpiato, sorridenti insinuazioni sulla mia vita privata, spiegazioni lunghe e noiose che non ammettevano contraddittorio, rimproveri per cose che avevo detto o scritto come se io fossi strumento di una qualche potere o di una qualche vanità che mi inibiva ragionamenti e prospettive, e da alcune donne la stessa cosa, perché non c’è bisogno degli uomini per essere maschilisti, bastiamo noi.

Non parlavano solo a me, parlavano a una donna, rappresentavo il mio genere. Io dovevo essere educata. Educare le donne è compito degli uomini. Educare è compito di chi ne sa di più, per attitudine storica. Come se la storia si fosse fermata prima dell’istruzione di massa, o della dichiarazione dei diritti universali. Per attitudine di una storia trascorsa. Di questo secondo tipo di violenza che, per paradosso, definirei accudente, non ci si accorge quasi.

È una violenza consueta, diffusa, è un’abitudine. Da quando il mondo è mondo, chiosava mia nonna. Ecco, questa base diffusa di violenza invisibile e presente, che vive essenzialmente di parole, quali piante fa crescere in ambiti, fisici, dove le parole non sono d’abitudine, e non servono, come diceva sempre mia nonna quando parlava di incontri romantici (che già ai suoi tempi forse di romantico non avevano niente)? Ecco, diventano gesti. Gesti che hanno la medesima natura di quelle parole. Una natura violenta, inquisitoria, distruttiva, coercitiva, annichilente, omicida. Cambiamo le parole, pronunciamo i nomi, e cambieremo il mondo.

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