Per il pubblico la Brexit è una questione irrilevante. Per Bruxelles, una decisione unilaterale della quale il Regno Unito (UK) paga le conseguenze. L’Ue ha così ottenuto il rispetto delle regole comunitarie perché UK possa accedere al mercato unico; vincoli alla mobilità delle persone e all’offerta di servizi; la City perde il dominio nella finanza; e il confine tra le due Irlande rimane aperto. Bruxelles ha vinto, incidente chiuso. Ma alla lunga, avere gestito la Brexit in un’ottica punitiva, per la UE potrebbe essere una vittoria di Pirro.

Con l’uscita del UK viene a mancare la sua cultura democratica e visione liberale dell’economia a fare da contrappeso in un’Europa a trazione tedesca. Mentre UK concede il suo passaporto a 3 milioni di cittadini di Hong Kong in risposta alla repressione cinese, attirando l’ira di Pechino, la Germania si volta dall’altra parte, perché la Cina è diventata il suo primo partner commerciale.

Per industrie leader quali Siemens, Volkswagen o Daimler, la Ue (escludendo il mercato tedesco) rappresenta ormai, rispettivamente, solo il 18, 39 e 25 per cento del loro fatturato; l’Eurozona ancora meno. Si chiede agli inglesi il rispetto dei diritti dei lavoratori, ma ci si dimentica che la Cina calpesta quelli civili della popolazione uigura.

Mentre UK sanziona gli oligarchi russi per l’assassinio e la repressione dei dissidenti, la Germania stringe un grande accordo economico con la Russia per il gasdotto Nord Stream 2, passando sopra la testa e gli interessi dei Paesi europei limitrofi. La giustificazione del debito morale per i 20 milioni di morti russi della guerra fornita dal presidente della Repubblica Federale, Frank-Walter Steinmeier, deve essere suonata agghiacciante alle orecchie dei polacchi. La posizione tedesca - con Russia e Cina, prima vengono gli affari – è sempre stata condivisa dai Governi italiani. Mi chiedo come si riconcili con l’atlantismo di Draghi.

Il nodo del commercio

C’è poi la questione del commercio. L’Ue ha voluto imporre condizioni per l’accesso inglese al mercato europeo. Eppure, dovrebbe essere l’Europa a volere la garanzia di accesso al mercato inglese, visto che vanta un surplus commerciale di oltre 100 miliardi (e l’Italia è al terzo posto). Gli inglesi non hanno imposto ostacoli o condizioni, ma potrebbero farlo per ritorsione, e sarebbe l’Europa a perderci.

Inoltre, la posizione negoziale europea si indebolirà nel tempo per via un trend già in atto: dalla crisi del 2008, l’export britannico verso l’Europa è aumentato poco più dell’1 per cento medio annuo, mentre quello col resto del mondo è raddoppiato, ed è oggi prevalente.

Il principale obiettivo di Bruxelles, che spiega la sua posizione negoziale, è quello di porre fine al primato della City nell’industria finanziaria. L’accordo sulla Brexit non concede infatti a Londra “l’equivalenza”, ovvero la possibilità di negoziare le attività in euro, né di offrire servizi e prodotti finanziari all’interno dell’Unione.

Il recente sorpasso della Borsa di Amsterdam su quella di Londra viene festeggiato come un successo, ma dovrebbe invece preoccupare: non si sta creando un mercato finanziario unico dell’Eurozona, ma le negoziazioni sottratte alla City si stanno frammentando tra Parigi, Francoforte e Amsterdam, riducendo la liquidità degli scambi, aumentando i costi di transazione e le difficoltà per le aziende nel raccogliere capitali abbondanti e basso prezzo. Ironicamente molti scambi diventati “europei” transitano su piattaforme elettroniche (come Turquoise, Aquis e Cboe) di proprietà di società inglesi e americane.

E il primato di Amsterdam, più che all’efficienza del suo mercato, è dovuto all’opacità delle regole di governance olandesi. E’ poi probabile che UK si aggreghi alla Svizzera, a cui Bruxelles ha tolto l’equivalenza come alla City, e per ritorsione tolgano l’equivalenza all’Europa.

Si creerebbe un mercato anglo-svizzero che per dimensioni e liquidità sovrasterebbe le Borse dell’Eurozona: un bel danno per gli investitori europei perché la capitalizzazione delle azioni di questi due paesi (più Norvegia, Svezia e Danimarca fuori dall’euro) rappresentano il 49 per cento del principale indice europeo Stoxx 600, contro il 47 dell’Eurozona, però frammentato tra non meno di cinque borse.

Non si è concessa l’equivalenza a Londra sui derivati in euro, ma la si è data agli americani col risultato di avvantaggiare New York. Alle banche fuori dall’euro è stato chiesto di spostare fino a 1.200 miliardi di attività, sede legale e personale sotto la regolamentazione Bce (e queste si sono sparpagliate tra Dublino, Parigi e Francoforte). Stessa sorte per i broker, e ora si discute per le società di asset management, anche se significherebbe impedire agli inglesi quello che è permesso a svizzeri, americani, e giapponesi.

Bruxelles non capisce che un mercato dei capitali efficiente non dipende da dove vengono negoziati i titoli e contabilizzati i prestiti, o dal numero di persone che lavorano in un posto, ma da chi prende le decisioni su come allocare il rischio, quali investimenti finanziare e a quale prezzo. E’ difficile che i centri decisionali si muovano da Londra, per il valore delle tradizioni, la cultura finanziaria, la lingua, un sistema giuridico ineguagliato e un fisco amichevole.

I mercati contano

Distruggere il ruolo della City come mercato finanziario europeo senza però creare una vera alternativa nell’Eurozona che possa reggere la concorrenza di Stati Uniti e Asia, costituirà un ostacolo importante per la crescita in Europa. Per capirlo, bastano alcuni esempi che ho già ricordato su queste colonne. BionTech, la società tedesca del vaccino con Pfizer, si è dovuta quotare al Nasdaq per poter raccogliere facilmente un miliardo che le necessitava per la crescita.  

La rete unica in Italia, che potrebbe nascere dalla fusione di OpenFiber con quella di Tim, lo farebbe con i capitali determinanti di un fondo americano (Kkr) e australiano (Macquarie). La metà degli investimenti di venture capital in società europee da oltre 1 miliardo è stata finanziata l’anno scorso tramite il collocamento in una Borsa americana; mentre il 40 per cento della rimanente metà lo ha fatto a Londra e Stoccolma.

Il mercato dei capitali dell’Eurozona non è in grado di sostenere la crescita della sua economia; se mai lo sarà. Un approccio collaborativo di Bruxelles nel negoziato sarebbe stato più lungimirante.

Nella grande spartizione all’Italia sono rimaste le briciole. Nessuna banca straniera ha spostato neppure un dipendente a Milano: fisco, burocrazia, giustizia e mercato del lavoro le fanno scappare. E a Piazza Affari, ben poco è arrivato dalla City.

Eppure il governo Conte aveva sponsorizzato l’investimento “strategico” della Cassa depositi e prestiti nella società francese delle Borse, Euronext. Ma l’unico risultato “strategico” ottenuto coi soldi del risparmio postale è la poltrona di presidente: ironicamente andata a un nostro connazionale, ma proveniente dalla svizzera Ubs.

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