Quando è stato fondato, sotto la guida di Walter Veltroni, il Pd si è presentato al pubblico con la ragionevole ambizione di continuare sotto nuove forme l’esperienza dell’Ulivo - il simbolo intorno a cui si erano ritrovati gli elettori di centrosinistra dopo la crisi della “prima Repubblica”.

Avrebbe dovuto rafforzare quell’area, nel quadro di una dinamica bipolare, costituendone il solido baricentro riformista. Avrebbe dovuto anche superare in maniera innovativa alcuni vizi dei partiti che si erano sciolti per dargli vita.

Innovazioni fissate nel suo statuto, come la parità di genere negli organismi dirigenti, il limite alla reiterazione dei mandati, l’allargamento della partecipazione oltre il circuito sempre più stretto degli iscritti attraverso le primarie, oltre a portare nuove energie, avrebbero dovuto ridurre il peso delle correnti e stabilizzare i leader. Avrebbero dovuto adeguare il Pd alle necessità di una democrazia in cui gli elettori si fanno sempre più spesso un’idea dei partiti in base a ciò che i leader sono in grado di comunicare, e sostenere l’affermazione di una democrazia capace di decidere, in cui gli elettori sono messi in condizioni di scegliere attraverso le elezioni chi deve governare, nel presupposto che chi viene scelto potrà farlo, senza doversi guardare costantemente le spalle anche in casa propria, per poi tornare a darne conto.

Cosa è andato storto

Diverse cose non hanno funzionato, alcune per fattori indipendenti dalle capacità o dalle intenzioni dei dirigenti Dem. I suoi dirigenti  hanno tuttavia responsabilità sufficienti a spiegare la progressiva perdita di rilevanza del Pd, che da partito ombrello – o grande tenda – sotto cui avrebbe potuto ritrovarsi quasi tutto il polo riformista è diventato, e rischia di continuare ad essere, un partner minore dei 5 Stelle.

Sia le patologie che Zingaretti cita come motivo delle sue dimissioni sia le debolezze che gli vengono (ora, silenziosamente) addebitate sono in fondo parte di questa sindrome.

Che il Pd abbia avuto regole rigorose per favorire la rotazione negli incarichi e il ricambio, ben prima che i 5 stelle ne facessero una loro bandiera, non se n’è accorto nessuno perché sono state sistematicamente aggirate.

La parità di genere e le primarie sono state addomesticate dalle correnti. Molto spesso la carriera politica delle donne è stata decisa dai maschi che negoziano gli organigrammi. E dopo ogni elezione interna, le correnti hanno presentato il conto ai segretari.

Veltroni se le trovò subito armi in resta, ne ha preso atto ed è uscito di scena­­. Pier Luigi Bersani le ha alimentate e lasciate fare, soprattutto quella del precedente antagonista, Dario Franceschini. Matteo Renzi le ha prima sfidate apertamente, per un anno o due con qualche successo, poi nella parabola discendente ha deciso di crearne una sua, poi un partito, lasciandone pure nel Pd un altro paio.

Sul piano della rappresentanza sociale, il Pd è oggi un partito arroccato nei grandi centri urbani, votato da elettori più anziani della media, più istruiti, più benestanti o comunque più soddisfatti della media riguardo al proprio tenore di vita, nettamente più europeisti, nettamente più distanti rispetto al resto dell’elettorato da teorie del complotto e credenze antiscientifiche.

Un elettorato assolutamente rispettabile, ma che rilette anche la difficoltà della dirigenza Pd a comunicare con chi si sente meno protetto, più emarginato, con chi diffida di chi vive da sempre nei palazzi della politica. E forse anche questo non è un caso.

Il groviglio di potere

Il vero problema del Pd è che è un reticolo troppo denso di politici di professione o aspiranti tali, in constante conflitto tra loro per la visibilità, per posizioni negli organismi interni o ruoli nelle istituzioni rappresentative.

Logorati non solo dalla pressione competitiva, ma anche dalla sostanziale mancanza di ricambio, acuita dall’organizzazione in correnti.

Zingaretti non ha dato prova finora di una particolare determinazione o di una chiara visione per superare questo assetto. Sembra piuttosto avere abbassato le aspettative. Fuori dal Lazio, non sembra avere sviluppato particolari curiosità o attenzioni riguardo a come è fatto il partito.

La rinuncia definitiva alle ambizioni originarie l’ha perfino ostentata, rivendicando come una nota di merito la scelta esplicita per un sistema elettorale del tutto proporzionale.

Un sistema che denuncia una vocazione minoritaria, apre quasi consapevolmente la strada alle scissioni, santifica la riproduzione dello stesso principio all’interno del partito, nella divisione delle spoglie tra le correnti.

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