Tutto è psicologia, scriveva alla fine del suo libro più intenso e doloroso Franz Kafka. Chiunque si illuda di sfuggire a sé stesso, scrivendo, non fa che confermare il semplice postulato del grande scrittore. Non sfuggirò certo io, seppur celando qui i traumi ripetuti che hanno prodotto in me le feste comandate. Dunque quel che segue andrebbe letto con pietas da tutti coloro che hanno trovato nel rito la lucetta della consolazione. E a loro è dedicato, beati.

Nel suo La violenza e il sacro, René Girard, filosofo francese, con una lunga storia di insegnamento nelle università americane, sostiene che il rito non sia che la ripetizione, sublimata, di un sacrificio ancestrale e in quanto tale liberatoria, proprio nel suo essere forma. Esso ci svincola dal circolo della violenza rendendola appunto forma simbolica e non sostanza. Ciò avviene proprio perché nella ripetizione nessuno viene più ucciso.

Secondo Freud questa ripetizione non era certamente libera, era anzi ossessiva, e anche se Girard non si è mai trovato d’accordo con le idee di Freud, certamente esse rendono le tesi del primo più accettabili, soprattutto per chi non crede ma ravvisa nelle teorie di Girard un qualche significato.

Tuttavia la ripetizione può assumere forme molto meno “sanguinarie” e del tutto laiche; se anche mettessimo in discussione l’assunto del filosofo cattolico, ciò non comporterebbe il negare che ogni ripetizione sia anche abitudine, costruzione di una cornice di senso che ci consente, per quanto possibile, di sfuggire alla domanda più dura: perché?

Andare a giocare a pallone ogni lunedì, dal dentista ogni tre mesi, a puttane la vigilia di Natale, sul presto. Cosa sono se non ripetizioni di riti? Il caldo riposo dalla nebbia gelida dell’incertezza; abitare l’incertezza è l’arte umana per eccellenza, e al tempo stesso il più grande motore di sofferenza. Navigare senza mai essere sicuri di dove sia il porto e cosa ci attenda; questo facciamo essenzialmente noi esseri umani. E ogni possibile appiglio di certezza ci aiuta a non uscire di testa rispetto alla domanda di senso.

I limitatori di incertezza

Oggi tuttavia la ripetizione e l’incertezza assumono nuove forme, quasi scambiandosi il ruolo, o meglio elidendosi a vicenda. L’incertezza diventa ripetizione quotidiana, diffusa a piene mani proprio da chi ha il ruolo che abbiamo deciso di assegnarli, in millenni di evoluzione del convivere civile, attraverso la democrazia rappresentativa. I limitatori di incertezza sono, per definizione i governanti. Lo sono, per decreto del consesso umano, per tutti. Nessuno escluso. O tali dovrebbero essere. E invece sono divenuti gli officianti del rito dell’incertezza.

Come se non ce ne fosse abbastanza nella vita di ognuno di noi. Come se la pandemia non minasse i fragili, temporanei approdi ai quali ognuno di noi si attacca disperato per continuare a navigare. La socialità nel senso più ampio, dalla partitella con gli amici del lunedì al pranzo domenicale con la famiglia, nel loro essere forma rituale divengono un calmante naturale. Si naviga verso non si sa dove, ma si vedono isolette che conosciamo a memoria, prevedibili nella loro morfologia, nelle quali più o meno piove sempre alla stessa ora.

Ora le isolette non ci sono più e il comandante della nave, anziché guidarci con sicurezza e gravitas ci confonde con la sua stessa incertezza; diventa tutt’uno con il mare sconfinato che ci circonda. È incapace di abitare e dunque di mitigare l’incertezza, con provvedimenti chiari e comprensibili, per quanto duri possano essere. Dunque dalla politica della paura siamo passati a quella degli “incerti”, e nessun rito, in questo quadro, può rendercela accettabile, tanto meno l’importantissimo Natale, da «salvare a ogni costo» come ha detto giorni fa il presidente del Consiglio e ripetuto ieri l’altro in televisione il professor Lo Palco: «Se chiudiamo ora potremo uscire a fare i regali di Natale».

La traslazione dalla paura all’incertezza, profondamente diverse per la capacità di quest’ultima di penetrare anche in fasce più ampie e socio-economicamente di livello superiore (le élite) e per questo tradizionalmente dotate di anticorpi più solidi contro la vulgata irrazionalista del populismo italiano e di ogni latitudine, è la definitiva rivelazione dell’incapacità della nostra classe dirigente e un pericolo ancora più grande della paura. Sono incerti, misurano lo scontento del qui e ora e promettono isole artificiali, che mano a mano divengono per noi rocce sconosciute e imprevedibili, ogni volta che vengono trasformate in obiettivi successivi, in questa faticosissima rincorsa contro il tempo già passato, contro il già successo, contro l’irrimediabile.

Tutto è contraddizione

Volendo tornare al pensatore francese, da chi scrive non molto frequentato in verità, ma che torna alla mente grazie alla soffiata di un’anima buona alla quale confessavo di volermi mettere a scrivere di Natale, riti et similia, egli non sarebbe certamente felice di vedere il rito sacrificale per eccellenza trasformato in strumento della pratica quotidiana dell’incertezza, confinato a obiettivo agonistico, retrocesso a mera scadenza temporale. Il guaio è che non è nemmeno un’idea nuova, ma solo la strumentalizzazione subdola e ipocrita di ciò che in larga parte già è. Non sono nemmeno originali, nella loro consapevole e soddisfatta dabbenaggine.

Nell’agire e nel dire sciagurato del presidente del Consiglio, tutto è contraddizione. La tentazione di difendere concetti di vita del passato è un altro effetto dell’incertezza, una risposta pavloviana dei nostri cervelli esausti. Una posizione un po’ punk, dunque infantile e per questo molto seducente, potrebbe addirittura gioire di fronte all’uomo qualunque Conte che, graziato dal tocco miracoloso del potere arrivatogli nel più impensabile dei modi, nel momento nel quale pensa di celebrare l’importanza del rito lo svuota di quel poco di significato che gli resta, attraverso l’usurpazione delle sue dinamiche (ovvero quella ripetizione del sacrificio primordiale che avrebbe la capacità di liberarci dalla paura che esso si rinnovi). E dunque, accanto ai prevedibili luoghi comuni sulla forma spesso solo esteriore della riunione familiare, che benché triti rimangono convincenti e condivisi, oggetto di inside joke familiari (nelle migliori delle ipotesi) o dramma inevitabile (nella maggior parte dei casi, forse) ora c’è l’imprimatur del potere politico. Il Natale sarà la vostra carotina, il sacrificio siete voi, se non ve ne siete accorti.

Che lascino in pace il Natale; quasi nessuno dei paesi messi come noi ha avuto questa idea geniale. Soltanto Angela Merkel ha fatto un timido riferimento al «Natale insieme». Farci digerire l’evitabile (parzialmente) stato delle cose anche con il miraggio di un rito già sconfitto, desiderato da non si sa bene chi.

Per salvaguardare riti svuotati e scheletrici si vorrebbe farci accettare l’evidente imbecillità della ripetizione rituale del decreto – ma ci sono dei morti, tanti morti; come si dice in questi casi al posto di imbecillità? E il sacrificio in questo rito è il nostro. Perché in aggiunta all’oscenità della comunicazione a ripetizione, essa è ritardata, o meglio, come dice Luca Sofri, agisce sempre «tempestivamente dopo». A sacrificio avvenuto.

Dopo i morti di Ferragosto

Siamo nel pieno regno della contraddizione interna come strumento di potere; e accettiamo ormai ogni cosa. Tre sassi scagliati dai soliti fascisti contro una vetrina non cambiano le cose. Non ci si augura la rivoluzione qui, nemmeno quando sarebbe legittima almeno secondo Hobbes, come scriveva bene il direttore di questo giornale qualche giorno fa, sottolineando che il filosofo più “statalista” della storia identificava l’eccezione all’ubbidienza nella mancata capacità del sovrano di garantire l’incolumità fisica del “suo” popolo, unica condizione che autorizzava quest’ultimo a sopprimere il sovrano stesso. Incolumità fisica oltre a quella psicologica, verrebbe da aggiungere, della quale si parla sempre troppo poco e da ultimo solo come corollario alle cronache delle violenze di questi giorni, come se fosse quello il punto. Il punto è un altro. Abbiamo bisogno di abitare la nostra di incertezza, non quella altrui. Nessuno pretende la soluzione, ma la capacità di comunicare e condividere lo stato di incertezza cronica nel quale viviamo, imparando, oltre ad agire tempestivamente prima, a comunicare nel modo migliore possibile. Lavorando sulla propria capacità di gestione dello span of time discretion. Essendo leader. Basta guardare verso la Germania per vedere come si fa. Vedere, che non vuol dire saperlo fare. Ma certo se avessero semplicemente copiato e incollato ogni parola pronunciata da Angela Merkel, forse abiteremmo questa devastante incertezza con meno terrore di quello alimentato e moltiplicato esponenzialmente da un p1residente del Consiglio e da governanti chiaramente non in grado di svolgere il proprio compito. Unfit. E che si lasci stare il Natale – detto da uno per il quale il Natale è un trauma ancora irrisolto. Non ci serve la minaccia di perdere i balocchi del 25 mattina per sapere come dobbiamo comportarci. Sarebbe stato più interessante dire il contrario; soffriremo almeno fino a dopo Natale, Capodanno e la Befana. Tiè. Saremmo più contenti, e chissà cosa ci saremmo inventati. Invece con tutta probabilità dopo i morti per il diritto al rito di Ferragosto avremo quelli per il Natale libero. Il rito è svuotato, si torna al sacrificio.

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