Il recente intervento della Santa sede presso il governo italiano in merito al ddl Zan riguarda in primo luogo l’articolo 7 del testo di legge, in base al quale le scuole paritarie cattoliche non sarebbero esentate dall’organizzare specifiche attività in occasione della costituenda Giornata contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia.

L’intera vicenda riporta alla luce una questione politica di estrema rilevanza: la configurazione della laicità all’interno della nostra democrazia. La profezia moderna della scomparsa delle religioni dallo spazio pubblico non si è avverata, tanto che per definire i contesti occidentali contemporanei si è utilizzato il concetto di post-secolarismo, a significare appunto il ritorno, nella sfera pubblica, delle religioni.

La via italiana alla laicità

Ciononostante, va subito chiarito che questo non può indurci a mettere in discussione il valore politico del secolarismo, come conseguenza e al tempo stesso pre-condizione del pluralismo dei valori e come pragmatica della coesistenza fra credenti, non credenti e diversamente credenti.

C’è una via italiana alla laicità che è stata ribadita sul piano giuridico dalla definizione della laicità come principio di rango costituzionale confermata dalla sentenza n. 203 della Corte costituzionale del 1989. Questa sentenza interpreta la laicità come equidistanza fra le diverse concezioni morali, religiose e fra diversi valori. Quale principio di rango costituzionale la laicità dovrebbe essere pertanto sottratta alla contrattazione politica e indisponibile al compromesso fra le parti dando così forma tanto alla legislazione ordinaria quanto alle politiche pubbliche, secondo una logica mainstreaming.

Lungo questo stesso versante si è poi mossa l’Unione europea nella Carta dei diritti fondamentali, avendo riconosciuto il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica come carattere specifico della sfera pubblica sovranazionale. La laicità viene così a configurarsi in una visione dello spazio pubblico secondo la quale tutti i cittadini e le cittadine, credenti non credenti e diversamente credenti, vivono i loro stili morali di vita con pari dignità senza che prevalgano credenze o contenuti di alcuni su altri.

Una definizione certamente molto impegnativa, che presuppone il  rispetto costante del pluralismo morale e la ancor più complessa distinzione fra buono e giusto, a partire dalla quale per essere cittadini e cittadine di una comunità politica non occorre condividere la stessa visione del bene. Sul piano individuale tutto ciò presuppone una dimensione antropologica che dà nutrimento alla laicità pubblica e istituzionale, senza la quale quest’ultima avrebbe vita assai breve.

Ciascuno di noi dovrebbe mettere in pratica una sorta di esercizio di tolleranza che non prescinda dall’accettazione di una ragionevole asimmetria tra l’etica pubblica e la singola moralità privata, capace di convivere con un piano legislativo che può non essere pienamente rispondente a ciò che a livello individuale si ritiene essere buono. Ed è questo il punto che entra in rotta di collisione con quanto riportato nella nota della Santa sede, in cui si legge che la Chiesa, a partire dalla Sacrai Scrittura e dal magistero autentico del papa e dei vescovi, considera la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che essa non ritiene “disponibile”, perché derivata dalla stessa Rivelazione divina. Si tratta di una verità non disponibile.

La definizione italiana di laicità prende criticamente le distanze dalla laicità come neutralità, come indifferenza alle religioni, alla francese insomma, e si avvicina all’ipotesi di una laicità positiva e aperta, come metodo e regola del pluralismo sociale. In questa visione dello spazio pubblico anche le religioni hanno diritto di parola, così come altri punti di vista, ma solo rinunciando all’egemonia della propria particolare motivazione secondo un principio di uguaglianza fra cittadini.

Si tratta certamente di un’operazione non semplice, ma imprescindibile per poter dar vita a una sfera pubblica polifonica in cui argomentazioni religiose e argomentazioni secolari possano ascoltarsi reciprocamente e trovare soluzioni di contesto che rispettino le libertà delle scelte individuali, rinunciando al monopolio della verità e riconoscendo il primato del diritto secolare.

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