Avete mai cercato informazioni su un motore di ricerca diverso da Google negli ultimi anni? Tolti quelli di voi vittima di un virus (che a volte impone Bing, il motore di Microsoft), la risposta di solito è no. Certo, c’è il microcosmo di Apple, ma anche chi ha un Mac poi finisce per usare soprattutto Google Chrome. Google ha costruito un sistema chiuso, perfetto, nel quale controlla tutto. E questo ha innescato una azione legale del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti senza precedenti.

O meglio, con precedenti lontanissimi, che risalgono agli anni Novanta, quando su entrambe le sponde dell’Atlantico smantellarono una posizione dominante analoga da parte di Microsoft (che integrava il suo browser per navigare in Internet Explorer nei computer che usavano il suo sistema operativo Windows).

Nel secolo delle piattaforme digitali, si è invece affermata la convinzione che il consumatore vincesse sempre: certo, Google, Facebook e Amazon ammassavano un potere enorme, si espandevano di settore in settore, ma all’utente finale offrivano servizi sempre migliori a prezzi bassi, spesso addirittura gratis. Tutto bene, dunque?

Il dipartimento di Giustizia guidato da William Barr, uno dei fedelissimi del presidente Donald Trump, risponde di no. Che lo strapotere di Google viola lo Sherman Act, la pionieristica legislazione antitrust approvata dagli Stati Uniti nel lontano nel 1890 che è stata usata per smantellare colossi divenuti troppo potenti, come la società di telecomunicazioni AT&T.

Dagli anni Settanta ha prevalso la dottrina diffusa dalla scuola di Chicago: finché i prezzi non salgono per il consumatore, la posizione dominante di un’impresa è semplicemente il risultato della sua maggiore efficienza. Una teoria molto conveniente per gli amministratori delegati e le grandi società che infatti hanno parecchio contribuito a diffonderla.

Negli ultimi anni il clima è cambiato, la stessa Università di Chicago è diventata il centro intellettuale di elaborazione di una nuova teoria antitrust che sosteneva come nel campo del digitale molte delle vecchie idee non fossero più valide: imprese troppo grandi bloccano l’innovazione, impediscono a nuovi servizi e prodotti di raggiungere i consumatori, acquisiscono il potere politico di piegare le leggi alle proprie esigenze, in spregio del benessere generale.

Nel giro di un paio d’anni queste idee promosse, tra gli altri, da Luigi Zingales a Chicago, Fiona Scott Morton a Yale, Lina Kahn e Tim Wu a Columbia, sono rapidamente diventante influenti al punto da cambiare l’orientamento dei legislatori.

Dopo un anno e mezzo il Congresso ha concluso una indagine che certifica lo strapotere delle piattaforme digitali e i loro abusi a danni della parte dei loro clienti più tartassata (le aziende che vendono su Amazon o fanno pubblicità su Google).

Adesso il dipartimento di Giustizia raccoglie il lavoro dei vari procuratori statali che in questi mesi hanno lavorato alla preparazione del caso e apre l’offensiva contro Google, il bersaglio grosso, la società più potente di tutte. Certo, c’è un po’ di campagna elettorale in questo, Trump ha messo fretta a Barr perché voleva qualcosa da annunciare alla vigilia delle elezioni, nell’estremo tentativo di posizionarsi ancora come il presidente che sfida i poteri costituiti, che non ha timore di scontrarsi con i colossi della Silicon Valley californiana, serbatoio di voti e di idee del partito Democratico. Ma c’è molto di più, c’è una svolta culturale in corso negli Stati Uniti.

Per una volta l’Unione europea è arrivata prima, molte delle accuse del dipartimento di Giustizia americano sono analoghe a quelle avanzate dalla Commissione europea che ha più volte sanzionato Google per come usa la sua piattaforma di app Play e il sistema Android. Ma gli attacchi di Bruxelles hanno scalfito poco le compagnie tecnologiche americane, anche perché Washington nel contenzioso si schierava a difesa dei suoi campioni nazionali contro il regolatore europeo. Ora l’attacco allo strapotere di Big Tech arriva direttamente dal governo americano che ha il potere di cambiare davvero la natura del settore e la sua evoluzione.

Tra le tante accuse, il dipartimento di Giustizia contesta a Google di aver pagato per anni miliardi di dollari a Apple, Lg, Motorola e Samsung oltre alle compagnie telefoniche AT&T, Verizon, T-Mobile per assicurarsi che il suo motore di ricerca fosse l’opzione di default, quello che gli utenti dei cellulari trovavano per primo. Poi Google ha trasformato Android, in teoria un sistema operativo open source (aperto e modificabile da tutti, a differenza di iOS di Apple), in uno strumento di controllo assoluto dei suoi partner, se vuoi la tua app su Android devi accettare tutte le condizioni di Google.

Con un po’ di malizia, il dipartimento di Giustizia sottolinea che vent’anni fa Google contestava a Microsoft le stesse pratiche che poi ha adottato. Come dire: siete spacciati. L’esito è imprevedibile, l’azione legale potrebbe culminare anche nello spacchettamento dei vari business di Google (pubblicità, ricerca, intelligenza artificiale, piattaforma per app) e aprire una nuova stagione di innovazione e concorrenza.

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