«Il governo dovrà proteggere i lavoratori ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente». Tenuto conto che siamo in Italia, l’ho trovato il passaggio più significativo e meno scontato del primo discorso di Mario Draghi in Senato. La pandemia ha riportato in primo piano il problema delle società zombi: aziende in declino irreversibile che non reggono la competizione e non riescono a generare reddito.

Difficile immaginare che dopo la crisi tutto tornerà come prima. Ci saranno cambiamenti durevoli nella struttura produttiva, nella domanda di servizi e prodotti e nelle abitudini dei consumatori. Probabili i cambiamenti nelle catene dei fornitori, nell’organizzazione delle imprese, nelle modalità di utilizzo del tempo libero, mentre e-commerce e digitalizzazione dei servizi avranno profonde implicazioni su logistica, lavoro a distanza, fornitura dei servizi essenziali, utilizzo degli immobili.

Alcune imprese prospereranno, altre andranno in crisi, anche per il troppo debito accumulato: la garanzia statale dei crediti evita le perdite alle banche, ma non il fallimento alle aziende. Questi cambiamenti impongono di spostare risorse, lavoro e capitale, da un settore all’altro, o da un’azienda all’altra.

Prima del Covid

Ma le aziende zombie non nascono con il Covid. Sono sempre esistite: Alitalia, Ilva, Embraco, Termini Imerese, Whirpool a Napoli, l’acciaio a Piombino, l’alluminio a Portovesme, Mps e le centinaia di aziende ai tavoli di crisi presso il ministero dello Sviluppo. Le società zombie sono strettamente legate al ventennale ristagno della produttività italiana: un caso unico al mondo.

La produttività misura il valore di quanto si produce in un’ora di lavoro, e quindi la capacità di generare reddito. Se non c’è crescita, il paese si impoverisce rispetto agli altri, le nuove generazioni non riescono a migliorare il proprio tenore di vita e si accentuano le tensioni sociali perché la redistribuzione del reddito diventa un gioco a somma zero in cui i miglioramenti degli uni vengono a danno degli altri. La produttività deve quindi essere il principale obiettivo dei fondi Next Generation Eu.

La produttività cresce perché si producono non tanto gli stessi beni in quantità maggiori, ma beni e servizi con un più alto valore aggiunto.

Il suo motore è quindi l'innovazione: ricerca e sviluppo; nuovi beni e servizi; aziende capaci di sfruttare economicamente l’innovazione; un mercato dei capitali efficiente che le finanzi; e istituzioni che le sostengano.

Risorse bloccate

Le società zombi sono l’evidenza di risorse bloccate in aziende e settori in declino, e dell’incapacità di mobilizzarle a favore di quelle a più alta capacità di innovazione e crescita della produttività.

Il ruolo dello Stato nel promuovere l’innovazione è cruciale, ma in Italia sembra andare in retromarcia: l’intervento pubblico è sempre - direttamente o con incentivi, sussidi, sgravi, agevolazioni, garanzie – a sostegno delle imprese in crisi o comunque non più competitive, a prescindere dalle ragioni del declino.

Questo facilita la creazione di società zombie e diventa un ostacolo all’innovazione e alla crescita della produttività. Le società in crisi aiutate dallo Stato sono tutte in settori maturi a tasso di innovazione nullo: bati pensare all’acciaio con gli altiforni che usa la tecnologia di Martin Siemens del 1865.

La costante disponibilità dello Stato a fornire aiuti e sussidi favorisce inoltre comportamenti opportunistici da parte degli imprenditori; e mantenendole in vita, aggrava la crisi delle aziende che, in quanto zombie, perdono clienti e l’accesso al credito, oltre a dover tagliare gli investimenti.  Più che ministero dello Sviluppo dovrebbe chiamarsi ministero dei Sussidi.

L’intervento statale ha lo scopo di proteggere l’occupazione; le società zombie ne costituiscono il costo accessorio. Meglio sarebbe lasciare a investitori, azionisti e creditori le decisioni sul reale valore e prospettive delle aziende, evitando di creare società zombie, e orientare l’investimento pubblico verso un sistema di welfare efficace nel ridurre i costi sociali.

Non solo, lo Stato deve soprattutto investire in istruzione per dotare chi lavora delle capacità necessarie alle aziende innovative e in crescita: un plauso a Draghi per aver sottolineato l’importanza degli istituti tecnici.

Come dovrebbe favorire la mobilità: la difesa dell’occupazione oggi significa conservazione del posto di lavoro fisico perché il mercato degli affitti è costoso e inefficiente, i costi di transazione immobiliari sono elevati, e la famiglia allargata deve surrogare lo Stato nell’assistenza ad anziani e disabili, negli aiuti alla vita domestica e ai bambini in età prescolare, o nell’attività sportiva degli adolescenti.  

Dov’è l’innovazione?

Oltre a evitare le società zombi, tagliare i sussidi e riformare il welfare, lo Stato dovrebbe anche finanziare e promuovere la ricerca; indentificare e sostenere le aziende nei settori chiave per l’innovazione; e assicurare il funzionamento efficiente delle istituzioni. 

Nella ricerca e sviluppo siamo il paese del G7 che nel decennio ha investito di meno rispetto al Pil; e così abbiamo anche la minore quota degli investimenti su Pil (assieme a Gran Bretagna), che è l’altra faccia dell’incapacità di innovare.

Lo Stato deve identificare dove è più probabile che si sviluppi l’innovazione e sostenere le aziende in quei settori. Sostenere le aziende non significa però diventarne soci: per esempio gli Stati Uniti sostengono in modo molto efficace le industrie nei settori più innovativi come quello militare, tecnologico, finanziario, o farmaceutico, senza detenerne un’azione. Un approccio alla base anche del miracolo della crescita asiatica in paesi diversi come Cina, Giappone, Corea o Taiwan.

Da noi il sostegno dello Stato a un’azienda è invece sinonimo di partecipazione azionaria, che impegna e vincola capitali pubblici a lungo termine troppo spesso non in settori chiave per l’innovazione, ma in società che assicurano i lauti dividendi dei servizi di pubblica utilità, o che comunque non avrebbero problemi a reperire capitali privati per la crescita: le partecipazioni storiche come Terna, Eni, Enel o Snam, ma anche i recenti investimenti in Tim, Autostrade, Nexi o Euronext condividono questa caratteristica.

Infine, c’è bisogno di istituzioni che sostengano la crescita delle imprese innovative. Come? Con le riforme che ci chiede l’Europa: giustizia rapida e certezza del diritto, burocrazia efficiente, fisco semplice e incentivante per gli investimenti.

Ho colto tutto questo nel discorso di Draghi. Sarebbe una rivoluzione economica, ma anche culturale e politica. Difficile essere ottimisti.

Come Draghi, possiamo solo confidare che «nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili».

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