Il Fondo monetario internazionale ha da poco rivisto le sue previsioni di crescita per quest’anno: non differiscono dalle stime di consenso, ma sono utili perché evidenziano il rischio che l’eurozona ripeta gli errori fatti nella gestione dell’economia dopo la crisi del 2008, e alcune debolezze strutturali del Continente che non vengono percepite come tali.

Per quest’anno il Fondo stima una forte ripresa nel mondo (5,5 per cento) nonostante la seconda ondata del Covid, guidata dall’Asia (8,3 per cento, escludendo il Giappone), seguito dagli Usa con il 5,1 per cento, l’eurozona al 4,1 per cento, Germania 3,5 e, ultima, l’Italia col 3 per cento.

L’aspetto più rilevante sta però nella revisione delle stime rispetto a quelle di ottobre: due punti percentuali in più per gli Usa, uno in meno per l’eurozona (-0,7 la Germania e -2,2 l’Italia), stabili per l’Asia.

Gli Usa stanno quindi uscendo dalla crisi molto più rapidamente dell’eurozona, anche rispetto alle previsioni di qualche mese fa.

Lo stesso era accaduto dopo la crisi del 2008, creando un divario che i paesi dell’eurozona non sono stati in grado di recuperare nel decennio successivo.

A healthcare professional prepares the Pfizer-BioNTech COVID-19 vaccine for residents at DomusVi nursing home in Alcala Henares, Spain, Thursday, Jan. 28, 2021. Health authorities in Spain are complaining that they are running short of COVID-19 vaccines due to delays in deliveries by pharmaceutical companies. Spain along with the rest of the European Union has suffered delays since Pfizer announced two weeks ago that it would reduce deliveries temporarily during a plant upgrade. (AP Photo/Manu Fernandez)

Dal 2009 al 2019 il Pil statunitense è aumentato del 2,5 per cento medio annuo, rispetto all’1,4 dell’eurozona, l’1,9 della Germania e, come purtroppo sappiamo, lo 0,26 dell’Italia. La maggior crescita dell’economia americana può essere ricondotta a tre elementi: politiche monetarie e fiscali più espansive e una maggiore efficacia nella loro implementazione; un modello di crescita basato sulle famiglie consumatrici, rispetto a quello dell’area euro basato sul traino delle esportazioni che dipendono da fattori esogeni legati alle dinamiche dell’economia mondiale; e un mercato dei capitali capace di mobilitare enormi risorse e finanziare gli investimenti rischiosi che il progresso tecnologico comporta, nonché un mercato del credito che, dopo il 2008, è diventato meno dipendente dal sistema bancario, e quindi meno esposto alle sue crisi.

Sempre gli stessi errori 

La revisione delle stime del Fondo per quest’anno dovrebbe servire di monito ai governi perché non ripetano gli stessi errori dell’ultimo decennio, e agiscano per correggere alcuni fattori strutturali che ne penalizzano la capacità di crescita.

Anche in questa crisi gli Stati Uniti hanno agito con maggiore rapidità e adottato politiche più espansive, che l’amministrazione Biden intende rafforzare. Lo dicono i numeri (un’espansione fiscale rispetto al Pil di circa 2 punti percentuali più dell’eurozona), ma soprattutto l’apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro (quasi il 9 per cento).

Solo di recente la Bce ha dichiarato di monitorare con attenzione l’apprezzamento ma, all’atto pratico, non si dice come si intende contrastarlo, sebbene costituisca un serio ostacolo alla ripresa di un’area economica il cui modello di crescita si basa sull’export.

La storia sembra ripetersi: nel decennio passato, mentre nell’eurozona la quota di Pil destinata all’export netto è aumentata di oltre 2 punti fino al 3,2 per cento nel 2019, gli Stati Uniti hanno fatto l’opposto, aumentando il deficit esterno fino al 4,8 per cento del Pil.

L’altra faccia della medaglia è che gli Usa nel 2019 hanno potuto allocare il 68 per cento del prodotto ai consumi interni delle famiglie, mentre in Europa sono stati compressi al 54 per cento.

Questa differenza strutturale amplifica l’efficacia della politica fiscale americana: lo Stato è intervenuto mettendo i soldi direttamente nelle tasche dei consumatori (in gran parte parcheggiati nei depositi bancari), e che verranno spesi appena cadranno le restrizioni a causa del Covid con un forte e immediato impatto sulla domanda aggregata.

L’approccio Europeo col Next Generation Eu è invece molto più lungo, complesso e dirigista, e punta sugli investimenti nel lungo periodo, ritardando però in questo modo l’impatto sulla crescita.

European Commission President Ursula Von Der Leyen addresses European lawmakers during a plenary session on the inauguration of the new President of the United States and the current political situation, at the European Parliament in Brussels, Wednesday, Jan. 20, 2021. (AP Photo/Francisco Seco, Pool)

C’è inoltre il rischio che l’approccio europeo non produca gli effetti sperati perché, a differenza degli Usa, l’eurozona non ha un mercato dei capitali altrettanto vasto ed efficiente per finanziare l’espansione delle imprese e l’innovazione.

Troppe aspettative su Next Generation

E’ illusorio pensare che per aumentare il trend di crescita siano sufficienti i fondi del Next Generation senza una grande mobilitazione anche di capitali privati. Il caso dei vaccini lo illustra in modo esemplare.

L’economia dell’eurozona è soltanto il 20 per cento più piccola degli Stati Uniti, ma ha appena tre delle venti maggiori società farmaceutiche (otto le americane); e l’unica che ricercava un vaccino, la francese Sanofi, ha desistito per produrlo su licenza dell’americana Pfizer. Molto peggio nella biotecnologia, dove nessuna delle venti maggiori è dell’eurozona (dodici le americane).

Emblematico il caso della tedesca BionTech, che ha sviluppato con Pfizer il primo vaccino Covid. E’ stata fondata nel 2008 con 150 milioni di un family office, ma si è dovuta quotare al Nasdaq nel 2019 per poter raccogliere un miliardo di dollari necessario alla crescita, perché solo negli Usa è possibile raccogliere così tanto collocando appena il 28 per cento di una società che in quell’anno ha perso oltre 100 milioni su 180 di fatturato.

I governi dell’eurozona si lamentano per la carenza di vaccini ma, come riporta il Financial Times, per il loro sviluppo hanno speso meno di 5 euro pro capite in sussidi alla ricerca, rispetto ai 32 di Usa e Uk.

Troppo dipendenti dalle banche

Syringes with Pfizer/Biontech COVID-19 vaccines are ready to be used at the MontLegia CHC hospital in Liege, Belgium, Wednesday, Jan. 27, 2021. The 27-nation EU is coming under criticism for the slow rollout of its vaccination campaign. The bloc, a collection of many of the richest countries in the world, is not faring well in comparison to countries like Israel, the United Kingdom and the United States. (AP Photo/Francisco Seco)

Infine, l’eurozona continua a dipendere dal sistema bancario per il credito, non avendo voluto promuovere un vasto mercato di strumenti finanziari per l’erogazione del credito alternativi alle banche.

Lo sforzo maggiore è andato alla costruzione di un sistema di vigilanza che, a prescindere dai nobili propositi, ha drasticamente ridotto la propensione degli istituti di credito ad assumere rischi: l’opposto di quello che richiederebbe il finanziamento di una crescita duratura.

Lo dimostra la Relazione sulla Vigilanza della Bce, appena licenziata, che mostra come nei primi nove mesi del 2020, nonostante gli incentivi al credito messi in atto, sia il coefficiente patrimoniale (Cet1), sia quello di liquidità (Lcr) del sistema bancario siano cresciuti continuamente fino al livello più alto da quando esiste la Vigilanza unica, segno di una forte riduzione delle attività pesate per il rischio. I prestiti sono aumentati, ma solo perché coperti da garanzia statale.

Un problema potrebbe sorgere con la fine della pandemia e la prevedibile ondata di insolvenze per via dell’esaurimento delle misure a sostegno delle imprese: mentre negli Usa le perdite ricadranno su una moltitudine di investitori, riducendo il rischio di una crisi finanziaria, nell’eurozona saranno le banche a sopportarne il peso, col rischio di una stretta creditizia proprio quando ci sarebbe bisogno del contrario.

Considerazioni che il prossimo governo italiano dovrebbe tenere bene a mente quando deciderà l’allocazione del Next Generation Ue.

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