Gli ultimi dati sulle dimissioni volontarie registrano una nuova tendenza. Intanto quantitativa. Sono infatti in grande aumento nel 2021 rispetto al 2020 e soprattutto in costante e progressivo aumento.   

Le “ dimissioni in bianco “ hanno rappresentato nel senso comune l’abuso da parte di imprese scorrette nei confronti delle assunzioni di giovani donne a cui, al momento della assunzione, veniva fatta firmare una lettera di dimissioni volontarie da utilizzare di fronte ad una futura gravidanza. Vissuta da quelle imprese prima come rischio da evitare, poi come costo di cui liberarsi. 
Il monitoraggio di quei dati ha determinato nel tempo norme di legge per evitare gli abusi e insieme ha fatto emergere la solitudine delle giovani madri. Costrette a scegliere tra maternità e lavoro.

Generazioni, lavoro e «senso di vita»

Le «grandi dimissioni» di oggi parlano anche, non solo, d’altro. Alcune recenti indagini dicono della «ricerca di un nuovo senso di vita». Di una diversa conciliazione dunque tra tempi di vita e tempi di lavoro. 
La tendenza all’aumento delle dimissioni volontarie avviene in una dimensione statisticamente rilevabile, non solo in Italia, dopo la pandemia, che ha rivelato la fragilità di un modello produttivo e sociale. Ha mostrato una diversa gerarchia delle priorità per garantire il futuro. E contemporaneamente ha accelerato l’uso di piattaforme digitali per la continuità produttiva e per rompere l’isolamento del lockdown.

Riguarda persone tra i 25 e i 35 anni.
E rivela così la ricerca di un diverso rapporto di senso tra una generazione e il lavoro. E riguarda infine persone con mansioni impiegatizie e competenze digitali. Persone cioè che in virtù delle loro competenze hanno l’autonomia necessaria per esprimere un rapporto di forza con il mercato del lavoro nella ricerca di un lavoro meno estraniante e di maggiore libertà. Nella modalità di svolgimento. Nel rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro. Nella scelta del dove lavorare. 

Un visionario Bruno Trentin all’inizio del 2000 parlava di  «libertà», nel passaggio tra il capitalismo del Novecento e le nuove forme della produzione. All’osservazione di Norberto Bobbio, secondo cui bisogna sempre precisare cosa si intende per libertà, Trentin rispondeva che essa non può che essere la libertà della persona nel rapporto di lavoro. Perché è la libertà rimasta «minore» nelle culture storiche del movimento operaio. E in questo senso Trentin motivava l’aspirazione dei lavoratori  a maggiore autonomia e creatività nel lavoro attraverso l’esercizio del loro diritto alla conoscenza e al sapere. 

La rivoluzione digitale nel lavoro, di cui lo Smart working è un aspetto, rende oggi quel traguardo possibile, e insieme necessario per la stessa qualità del processo produttivo. E incrocia il nuovo desiderio di giovani generazioni rivelato dalle “grandi dimissioni”.

Così la «agilità» ci cambia

Il lavoro agile è, o dovrebbe essere per definizione, una articolazione produttiva svolta in autonomia dalle persone, con responsabilità, libertà e fiducia. Non necessariamente da casa. Richiede l’acquisizione di abilità e competenze. Non solo tecnologiche. Presuppone il cambiamento innanzitutto della cultura di impresa e della sua organizzazione. Nello Smart working cambia la relazione tra impresa, lavoratrice e lavoratore, cambia il ruolo del management. Quindi cambia la regolazione del lavoro. E per questo cambierà anche la cultura sindacale. 
Può cambiare, per la  forza trasformativa insita nel cambiamento del lavoro, la fisionomia delle città. Verso città “prossime” e sostenibili, dal punto di vista ambientale e sociale. 

D’altra parte il lavoro di domani non potrà essere ripetitivo e procedurale, come dicono tutte le previsioni dei maggiori istituti internazionali, ma basato sulla creatività, l’intraprendenza, la progettazione e l’adattabilità. 

A tale previsione non potrà che corrispondere sul piano delle politiche la formazione 4.0, un insieme cioè di misure e scelte, strutturali e finanziate adeguatamente, per accompagnare le persone e le imprese nella transizione verso nuovi modi di guardare al lavoro. E per rinnovare il sistema scolastico.

Alla vigilia del primo maggio, festa del lavoro, in un contesto reso quanto mai complicato dalle conseguenze della guerra  sulla nostra economia, sull’inflazione che erode salari già vergognosamente bassi e con aumento delle morti sul lavoro, è importante immaginare di costruire il futuro. Perché è la condizione per affrontare il presente, anche quello di tanto lavoro precario, guidandolo.

Soprattutto su questo sarebbe importante che le parti sociali si esercitassero chiamate in causa dal governo. 

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