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Fate presto». Si potrebbe sintetizzare così la preview del nuovo rapporto dell’Agenzia internazionale per le fonti rinnovabili (Irena).

Fate presto perché la decarbonizzazione dell’economia mondiale, come dice il direttore generale dell’Irena Francesco La Camera, «non sta avvenendo alla scala e alla velocità richieste per contenere l’aumento delle temperature a 1,5 gradi Celsius». Siamo in una fase di entusiasmo e volontà globali, sembra esserci una consapevolezza mai vista della crisi climatica in atto, ma i numeri ci riportano alla crudezza della realtà.

Troppo poco, troppo lentamente

Il mondo sta andando nella direzione giusta, ma lo sta facendo ancora troppo poco e troppo lentamente, come se avessimo molto più tempo di quello che realmente abbiamo. L’aspetto più preoccupante del World Energy Transition Outook pubblicato da Irena è che la forbice tra quello che dovremmo fare per mitigare il riscaldamento globale e quello che effettivamente stiamo facendo si sta allargando invece di restringersi, soprattutto se consideriamo il 2030 come primo orizzonte decisivo, quello entro il quale dovremo aver ridotto le emissioni di gas serra del 45 per cento rispetto ai livelli del 2010.

Invece le emissioni hanno continuato a crescere, in media del 1,3 per cento ogni anno successivo agli accordi di Parigi, escluso il 2020 pandemico, che ha comunque mostrato un rimbalzo di emissioni a dicembre, segno che quando il Covid-19 finirà avremo gli stessi problemi energetici che avevamo prima.

Le alternative

Invertire la rotta vuol dire iniziare a ridurre le emissioni in modo sostanziale da subito: per arrivare a zero nel 2050, come promesso dall’Europa e dagli Stati Uniti, dovremmo tagliarle in media del 3,5 per cento ogni anno. «Le tecnologie necessarie per decarbonizzare il sistema in gran parte esistono già oggi», spiega lo studio Irena. Da un lato, il loro 2020 è stato globalmente da record per le fonti rinnovabili: secondo le attuali stime dovremmo essere arrivati a 71 GW di eolico e 115 GW di fotovoltaico. Sono numeri di potenza installata mai visti prima al mondo. Eppure non bastano, non arrivano nemmeno vicini a essere sufficienti: secondo Irena questo tasso di crescita deve aumentare di otto volte per essere all’altezza della sfida climatica.

Il ritmo della transizione è un problema globale, ma l’Italia ha una sua specifica e deprimente declinazione nazionale, composta da quella giungla di burocrazia e autorizzazioni che sta tagliando le gambe allo sviluppo delle rinnovabili. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha promesso di metterci mano ed è l’urgenza numero uno. «Paesi come Spagna, Portogallo, Germania, hanno avuto una rapida comprensione del problema, sono riusciti a mettere in piedi un sistema di aste efficiente e a tagliare in questo modo anche il costo dell’energia. Da noi invece le aste vanno deserte, perché le autorizzazioni sono una spada di Damocle, hanno tempistiche insopportabili e non adatte allo sviluppo di un mercato. Il risultato è che in Portogallo l’energia da rinnovabili costa 17 euro per MegaWatt, in Italia 60 euro», commenta La Camera.

Il sistema che La Camera vede per un’Italia all’altezza della sfida della decarbonizzazione è questo: «Principalmente rinnovabili, con idrogeno verde e bioenergia come complemento». L’idrogeno verde – prodotto da fonti rinnovabili – è entrato con forza nel dibattito sulla transizione energetica italiana.

Cingolani, nella sua prima audizione al parlamento, lo ha descritto come la «soluzione regina», perché ci aiuta ad abbattere le emissioni nei settori più difficili da elettrificare, come le acciaierie, la chimica, i cementifici. Per sintetizzare in maniera brutale, l’idrogeno grigio (ad alte emissioni) dovrebbe essere lasciato al passato. L’idrogeno blu, che si fa con gli idrocarburi e la cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica, è la transizione. L’idrogeno verde è il futuro. Quanto sia distante come futuro è oggetto di dibattito e ricerca. L’orizzonte sembra meno lontano di quanto si credesse, ma ancora fuori dalla nostra immediata portata «Si diceva che l’idrogeno verde sarebbe stato competitivo nel 2050, lo studio che abbiamo pubblicato spiega che potrebbe esserlo già nel 2030, in Germania viene già usato nelle acciaierie, ma con un forte impulso pubblico per abbassare i costi». L’outlook Irena prevede che nel 2050 l’idrogeno verde potrebbe rappresentare il 12 per cento del totale dell’energia. Il problema è come arrivarci.

La capacità degli elettrolizzatori, che convertono le rinnovabili in idrogeno e lo rendono verde, deve arrivare a 5000 GW globali, al momento siamo a 0,3 GW. In ogni caso l’idrogeno verde è fuori dall’orizzonte dei primi obiettivi europei, quelli da raggiungere entro il decennio. Per quella data serve agire ora e usare in modo efficace e concreto i fondi Next Generation Eu. Per La Camera sono necessarie «nuove forme di partnership tra pubblico e privato, un disegno comune tra governo e imprenditori, e vale anche per lo sviluppo dell’idrogeno verde. I fondi europei richiedono progettualità, capacità di spesa e creatività, cose che appartengono più al settore privato».

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