La sconfitta è netta, severa. Per reagire senza rimuoverne i motivi e con lo spirito di chi vuole rialzarsi diamo per acquisito ciò che lo è: Elly Schlein è lì da tre mesi, queste amministrative le ha ereditate nella confezione, la destra sa coltivare una classe dirigente anche sul piano locale, soffia forte un vento europeo della reazione che da Helsinki scende su Atene, Madrid e Barcellona, il governo nazionale fortifica un’alleanza che si presenta compatta nei comizi (nonostante si detestino) mentre da questa parte ognuno rema per sé. Con un corollario: la buona notizia per noi è che i prossimi seggi si apriranno tra un anno. Saranno elezioni europee. Regola d’ingaggio, un proporzionale puro a stabilire stato di salute e gerarchie interne a un campo in grado di giocarsela alla pari. Detto ciò proviamo a concentrarci sul che fare.

Le proposte

Le cose necessarie credo siano almeno tre. La prima. Il congresso del Pd è finito, c’è una leader in sella che rivendica d’aver vinto sulla base di una domanda di discontinuità. Giusto, ma un partito non si regge su una logica maggioritaria: chi ha vinto decide, gli altri seguano. Un partito e chi lo guida hanno bisogno di cercare sempre la sintesi migliore tra le idee e proposte che quella comunità è in grado di produrre e alimentare, perché il pluralismo – quello vero e sincero, non già quello fondato su rendite senza basi e consenso – non è zavorra, anzi spesso può aiutare a illuminare il passo. Prenderne atto e farsene carico non può che rafforzare la segretaria e il suo gruppo dirigente.

La seconda. Questa destra è solida e coriacea. Anche aggressiva e spesso incontinente nel parlare, con una concezione del potere che la distingue dai precedenti. Detto ciò non è imbattibile, ma per sconfiggerla non bastano i rapporti di forza dentro le istituzioni. Alcuni di noi all’ultimo congresso hanno avanzato una proposta precisa: recuperiamo l’anima del migliore centrosinistra di questi trent’anni, la spinta dal basso generata dal primo Ulivo di Romano Prodi e Walter Veltroni. Allora furono i “Comitati per l’Italia che vogliamo”. Centinaia di migliaia di donne e uomini aderirono a una scommessa, scavare attorno a temi e passioni comuni le fondamenta di un governo alternativo alla destra.

Ci riuscirono e non per caso. Oggi non si può ripartire dall’attesa beckettiana di piazze e palchi dove Giuseppe Conte accetti di salire in compagnia del Pd e di qualcun altro. Serve ribaltare lo schema visto che senza una vera, larga, alleanza sociale e culturale prima ancora che politica qualunque alternativa la si scruta col binocolo. Ci sono almeno tre emergenze che impattano la vita degli italiani, quelli che stanno peggio, ma non solo loro. Una sanità pubblica al collasso e dove non saranno i 15 miliardi del Pnrr a evitare l’esodo di medici, infermieri e operatori con una riduzione dei servizi essenziali. Una autonomia differenziata che al Sud si presenta col volto di uno Stato disposto a tradire il patto di cittadinanza con oltre metà del Paese.

Un’emergenza abitativa esplosa nella sua gravità e che produce una inedita “sostituzione urbana” costringendo lavoratori, studenti, precari a fare i bagagli per emigrare dove un affitto o un mutuo non ipotecano l’esistenza. Tre temi per tre campagne mirate e fondate sulla costruzione di “Comitati popolari per l’Alternativa”, spazi di mobilitazione, lotta e partecipazione aperti a chi di entrare in un partito non ci pensa e non vuole farlo, ma che potrebbe sentirsi coinvolto in azioni e battaglie calate dentro la sua condizione.

Terzo. La nostra democrazia soffre. Sempre meno escono di casa per votare. Il Pd, tra i pochi partiti rimasti a presidiare un po’ di territorio, non ha di che pagare le spese per aprire le sue sedi. Avere soppresso ogni finanziamento pubblico alla politica ha prodotto il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Fanno politica solo gli eletti nelle istituzioni, ma per farsi eleggere devi avere risorse che un operaio o una precaria non hanno. La destra vuole il presidenzialismo perché tre quarti di secolo dopo ha da legittimare la sola cultura esclusa dal patto costituzionale.

Disegno inquietante, ma lo si contrasta solo restituendo la politica al popolo: non è populismo, è la più urgente delle riforme da attuare. E allora evitare di precipitare nel notabilato politico di fine Ottocento diventa garanzia di libertà e democrazia. Domenica abbiamo perso? Sì. Ma appunto per questo ora c’è da sudare. Basta credere a Barak Obama e Frankenstein Junior e dirsi pure noi che sì, “Si può fare!”. Con umiltà, ascolto e un conflitto sano ci possiamo risollevare.

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