La certificazione verde Covid-19 continua a essere un tema controverso. Più si va avanti, più emergono profili che necessitano di chiarimento. Perciò appare necessaria una disamina di quelli maggiormente rilevanti. Qualche giorno fa il Comitato tecnico scientifico (CTS) ha espresso parere favorevole al prolungamento della scadenza del “green pass” da 9 a 12 mesi. Dunque, è probabile che la proroga sia deliberata dal governo con un prossimo decreto. Si rammenta che ad aprile (d.l. n. 52/2021) il termine finale della certificazione era stato fissato a 6 mesi dal completamento del ciclo vaccinale.

A maggio (d.l. n. 65/2021), la sua validità è stata portata a 9 mesi, e contestualmente se ne è previsto il rilascio con la prima dose. A luglio, il ministero della Salute ha stabilito per i «soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2» la necessità di un’unica dose di vaccino «eseguita preferibilmente entro i 6 mesi (…) e comunque non oltre 12 mesi dalla guarigione», anche se per essi il “green pass” resta valido solo per 6 mesi post guarigione. Insomma, la durata della certificazione verde è stata aggiornata diverse volte. Oggi c’è un parere positivo del CTS sulla sua estensione, come detto, ma al contempo alcuni studi rilevano la riduzione dell’efficacia della vaccinazione dopo alcuni mesi. Quindi, per valutare la proroga, è necessario sapere su quali evidenze scientifiche si basi il parere del CTS e quale livello di protezione residua da vaccino sia reputato idoneo a garantire la sicurezza, per sé e per altri. Il governo dovrebbe chiarirlo.

Senza trasparenza non si fuga il sospetto che la proroga sia giustificata più dall’opportunità che dalla scienza. Se il termine finale delle certificazioni verdi post vaccinazione fosse rimasto di 9 mesi, a settembre sarebbero iniziate a scadere quelle dei primi vaccinati, per lo più operatori sanitari. Ma resta ancora da concludere la vaccinazione di alcuni milioni di persone: la terza somministrazione per gli uni e il completamento vaccinale per gli altri avrebbero forse creato problemi di gestione.

Tampone più “green pass”

«Il green pass è una condizione per tenere aperte le attività economiche», perché «senza vaccinazione si deve chiudere tutto di nuovo», aveva affermato il presidente del consiglio, Mario Draghi, nella conferenza stampa di presentazione del decreto-legge di fine luglio (n. 105/2021), che ha esteso l’uso dello strumento per accedere a una serie di luoghi e attività. E il ministro della Salute, Roberto Speranza, nella conferenza stampa di presentazione del nuovo decreto-legge (n. 111/2021) che ha ulteriormente ampliato il ricorso al “green pass”, il 5 agosto scorso, ha aggiunto che «la scelta del governo è investire sul pass per evitare chiusure e tutelare libertà».

Eppure, pare che il “green pass” non sempre basti per garantire un’effettiva sicurezza. Se n’è avuta conferma in occasione del G20 di Santa Margherita sul tema del “Women’s Empowerment”. Per l'entrata di giornalisti e altri al “Media Center” e ai momenti stampa in presenza, era richiesto «il risultato di un tampone rapido negativo effettuato nelle 48 ore antecedenti».

Quindi, non bastava essere vaccinati o guariti da Covid, attestandolo con “green pass”: serviva un test per verificare l’immunità dal virus. Il tampone, in aggiunta al “green pass”, non è previsto dalla legge, che per l’accesso in taluni posti si limita a prescrivere il “green pass”, e basta.

Il governo, con la richiesta anche di un test negativo per eventi che organizza, non solo mostra di non fidarsi completamente dello strumento cui ha affidato la ripresa in sicurezza, ma induce confusione e sospetti circa la fondatezza scientifica delle proprie scelte. E così si torna al tema della necessità di trasparenza.

Il “green pass” per sagre e fiere

Il decreto di luglio ha condizionato l’accesso a fiere e sagre – oltre ad altri luoghi – al possesso della certificazione verde, sia al chiuso che all’aperto. Poi, come talora accade, una FAQ del governo ha creato l’ennesimo pasticcio.

Vi si legge che, nel caso in cui sagre e fiere «si svolgano all’aperto in spazi privi di specifici e univoci varchi di accesso», gli organizzatori «si limitano a informare il pubblico, con apposita segnaletica, dell’esistenza dell’obbligo della certificazione verde Covid-19 per accedere alla fiera o sagra in questione. In caso di controlli a campione, sarà sanzionabile soltanto il soggetto privo di certificazione e non anche gli organizzatori».

La FAQ lascia perplessi. C’è l’obbligo di “green pass” ma, se gli organizzatori non ne verificano l’effettivo possesso, restano esenti da sanzione. Ancora una volta, ci si chiede quale sia il senso di imporre un adempimento per garantire la sicurezza in situazioni di potenziale assembramento, e poi si interpretino le regole con FAQ in modo tale da svuotarle di significato.

Il “green pass” per le università

Si ha notizia di atenei che subordinano al possesso del “green pass” la possibilità di sostenere anche esami da remoto, consentiti in specifici casi eccezionali (ma non per il mancato possesso della certificazione verde). Ciò in base alla norma (d.l. n. 111), ai sensi della quale anche gli studenti universitari «devono possedere e sono tenuti a esibire la certificazione verde», e le relative verifiche «sono svolte a campione con le modalità individuate dalle università».

La richiesta degli atenei parrebbe priva di senso, dato che il pass serve a tutelare attività in presenza. Ma, in questo caso, la questione sembra diversa. Poiché il decreto-legge citato dispone che le attività universitarie siano «svolte prioritariamente in presenza» e che i controlli del pass siano a discrezione degli atenei, è legittimo che questi ultimi colgano l’occasione degli esami, comunque svolti, per verificarne il possesso.

Detto ciò, sorgono perplessità non solo sul fatto che l’università possa “sanzionare” con il divieto di sostenere l’esame, ma anche sulla chiarezza della norma che richiede “il possesso” del pass agli studenti, senza ulteriori precisazioni. Come rilevato in articoli precedenti, si è ormai distorto l’uso dello strumento rispetto alla funzione per cui era stato concepito.

Il “green pass” cartaceo

A differenza della versione digitale del “green pass”, quella cartacea contiene dati personali del suo titolare. Ciò ha sollevato perplessità. Per motivi di privacy, dalla certificazione dovrebbe risultare esclusivamente il “via libera” all’accesso, senza che possano evincersi le condizioni che ne hanno legittimato il rilascio (vaccinazione, guarigione, tampone negativo).

La questione è stata chiarita da uno dei componenti il collegio del Garante Privacy, Guido Scorza: se si sceglie di stampare la certificazione cartacea nella versione integrale, prima di esibirla bisogna «avere l’accortezza di piegare il foglio in quattro», così che solo «la faccia con il QR-code» sia mostrata ai verificatori. Infatti, il QR-code è «sufficiente per tutti gli usi previsti dalla legge». Tra i tanti dubbi sul pass, almeno questo è risolto.

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