Quando il provincialismo della stampa italiana si combina con la sua naturale tendenza alla piaggeria verso il potere, il risultato è l’eccitazione per i giudizi positivi che arrivano dall’estero. Gli applausi di testate che si suppongono più libere ed indipendenti di quelle italiane generano sollievo in tante redazioni che così possono considerare, almeno per un giorno, gli omaggi al governo come giudizi equilibrati.

Questa volta a generare il solito circuito di autocelebrazione è l’Economist, che in un editoriale sceglie l’Italia come “il paese che è migliorato di più”.

Gli altri candidati, citati nell’articolo, erano Samoa, per aver superato una crisi istituzionale e sostituito un presidente che si considerava scelto da dio con un riformista, la Moldova, il paese più povero in Europa che sta migliorando, la Lituania, che ha sfidato la Cina con l’apertura di un’ambasciata di Taiwan a Vilnius. In mezzo a tanti nani, l’Italia di Mario Draghi giganteggia.

Il giudizio dell’Economist dovrebbe lusingare, una volta superato quel minimo fastidio che la superficialità dell’analisi genera (ma davvero si può definite il lavoro di presidente della Repubblica soltanto come “più cerimoniale” di quello del primo ministro?).

Il settimanale britannico riconosce il successo della campagna vaccinale e la rapidità della ripresa, però nel breve editoriale non spende una parola per indicare cambiamenti strutturali del paese.

Draghi, aiutato da successi simbolici come la vittoria agli europei di calcio, le medaglie olimpiche e il premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi, è diventato un volto nuovo dell’Italia, ma non il volto di una nuova Italia. La politica di bilancio del governo, imputabile almeno in egual misura al premier e ai partiti che lo sostengono, per esempio non è cambiata: 79 miliardi di euro di nuovo debito pubblico nei prossimi tre anni giustificata come sempre con la promessa di austerità rinviata a un futuro così remoto da sembrare innocua, investimenti pubblici faraonici che nessuno sa come realizzare e spesa sanitaria che, nonostante la pandemia, viene stimata nel 2024 ancora più bassa che nel 2019 in proporzione al Pil, 6,3 invece che 6,4 per cento.

 La solita Italietta cicala che sperpera nei momenti buoni per poi lamentarsi di non aver saputo prevedere quelli di magra.

Come paese, insomma, ci conoscono da sempre e quasi tutti i pregiudizi che riguardano l’Italia, gli italiani e la nostra incapacità di fare le cose giuste al momento giusto sono fondati (per fortuna c’è poi sempre una larga minoranza di funzionari pubblici, imprenditori, creativi e gente normale che compensa gli errori strutturali e ripetuti).

In alcune circostanze storiche, però, la faccia che rappresenta un paese refrattario a ogni cambiamento può far sembrare i difetti profondi una condanna al disastro o problemi in via di soluzione.

Nel 2011 i fondamentali dell’Italia non si erano deteriorati all’improvviso, ma la sola presenza di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi rendeva ogni impegno di bilancio o ogni promessa di riforma una barzelletta triste come quella che l’ex Cavaliere raccontava sul “bunga bunga”.

Oggi la situazione si è ribaltata, ma la sostanza meno: l’Italia non sta cambiando, le riforme strutturali non ci sono, i problemi precedenti sempre lì stanno. Però con Mario Draghi a palazzo Chigi sembrano più sopportabili.

Potremo esultare davvero soltanto quando l’Economist e tutti gli altri giornali che riflettono l’immagine trasmessa dai nostri media italici celebreranno un paese solido e credibile a prescindere da chi lo governa in quell’anno.

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