Se guardiamo all’impatto politico dello sciopero di Cgil e Cisl, questa scelta improvvisa di andare allo scontro con il governo Draghi ha un’unica interpretazione: cambiare il clima, dimostrare che la fase di concordia nazionale è finita.

Minacciare la piazza per protestare contro la legge di Bilancio a due settimane dalla sua approvazione finale, quando ormai è impensabile che cambi (non ci sono i tempi tecnici) e che si apra un dibattito di politica economia sotto Natale, serve soltanto ad avvelenare l’atmosfera.

Se i sindacati avessero voluto protestare per i temi a loro più cari – le condizioni di pensionandi e dei pensionati – avrebbero dovuto agitarsi molte settimane fa, al momento in cui si è capito che il premier Mario Draghi rinviava i dossier di politica economica più complicata al prossimo anno. Cioè al momento in cui, a meno di elezioni anticipate nel 2022, un governo a fine legislatura non potrà mai adottare soluzioni strutturali: la riforma delle pensioni che deve riempire il vuoto di Quota 100, i dettagli della delega fiscale, perfino la decisione sulle concessioni balneari è slittata a fine 2022.

 Adesso che entra nel vivo la partita per il Quirinale, i sindacati scoprono di avere un peso simbolico e politico significativo. Resta da capire se la scelta di far saltare la tregua generale (fino a poche settimane fa si parlava di un vago “patto sociale” con Confindustria) renda più o meno probabile il passaggio di Draghi al Quirinale.

Di sicuro è il primo segnale concreto che questo esecutivo sta perdendo la sua ragion d’essere: la campagna vaccinale procede bene, il Pnrr è impostato ma non certo realizzato (e chissà se mai lo sarà), forse a fine anno terminerà anche lo stato di emergenza e i presupposti che hanno determinato la nascita del governo Draghi a febbraio verranno meno.

Tempo a debito

Solo la politica, dunque, spiega la protesta dei sindacati. Perché nell’impianto la legge di Bilancio ha replicato i peggiori difetti dell’approccio sindacale alle disuguaglianze degli ultimi trent’anni: proteggere chi è oggi dentro il sistema e scaricare incertezze e costi su chi verrà dopo, o è ai margini.

Basta ricordare che, pur avendo a disposizione i 209 miliardi del Pnrr che faticheremo parecchio anche solo a iniziare a spendere, la legge di Bilancio ha varato 37 miliardi di misure espansive nel 2022, 38,4 nel 2023 e 37,8 nel 2024. Si tratta in gran parte di spesa in deficit (che infatti aumenta di 23,3 miliardi nel 2022, di 29,9 nel 2023 e di 25,7 nel 2024).

Le riforme e gli investimenti che dovrebbero far ripartire la crescita necessaria a rendere sostenibile questo debito sono tutti in forse, la zavorra invece è sicura, anche se con interessi più leggeri che in passato.

Tra fine 2022 e 2023 si capirà quanto del miracolo economico si materializzerà, speriamo tanto perché l’Italia sarà in una situazione delicata: è l’unico paese che ha preso tutti i fondi offerti dall’Ue, tra regali e prestiti, quello più esposto a rialzi dei tassi di interesse per combattere l’inflazione e il più in difficoltà se a fine 2022 torneranno le regole fiscali di Bruxelles sospese dalla pandemia.

I sindacati avrebbero potuto scendere in piazza a difesa delle generazioni (e dei lavoratori a reddito fisso) che si troveranno strette tra il rischio di inflazione e quello di manovre correttive tra un anno e poco più, e avrebbero potuto chiederne conto qui e ora al più autorevole dei premier possibili, cioè Draghi.

E invece, in sostanza, protestano perché il governo non ha fatto abbastanza deficit, sussidi a pioggia e spese correnti immediate. Al futuro ci si pensa, di nuovo, un’altra volta.

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