In un pezzo di qualche giorno fa ho suggerito che l’unico piano su cui avrebbe senso (sarebbe assai apprezzabile) un compromesso da destra e sinistra sono le regole (scritte e non) del bipolarismo. La regola cardine è il sistema elettorale. Tutti dicono (anche con argomenti fasulli) che la legge Rosato va assolutamente cambiata. Qui provo a dire come lo si potrebbe fare, senza cadere nella fossa del proporzionale puro. Rispetto ad altri astrattamente preferibili, il metodo per promuovere la dinamica bipolare che appare più congruente con le caratteristiche della politica italiana è il premio di maggioranza, innestato su un sistema proporzionale con voto di lista.

Uno dei vantaggi è che molti hanno proposto sistemi simili (a ulteriore dimostrazione di quanto appena detto), dunque nessuno può rivendicarne la paternità. Hanno iniziato Roberto Ruffilli (eletto come esterno dalla Dc) e Gianfranco Pasquino (eletto come indipendente dal Pci) negli anni Ottanta.

L’idea ha poi preso forma con buoni risultati grazie all’attivismo parlamentare di Augusto Barbera (Pci-Pds), Mario Segni (Dc) e altri referendari dei primi anni Novanta quando, nel 1993, fu approvato, sotto la minaccia di un referendum che poi non si tenne, il cambiamento della legge elettorale per comuni e province. Una variante elaborata da Pinuccio Tatarella (Msi-An) fu adottata nel 1995 per il livello regionale, anche in questo caso con risultati positivi che nessuno nega.

La trasposizione per Camera e Senato prodotta da Roberto Calderoli (Lega) e approvata con i voti di tutto il centrodestra nel 2005 non fu, per ammissione dello stesso autore, un capolavoro, come ha poi confermato la Corte costituzionale che l’ha cancellata.

L’Italicum proposto del Pd durante la segreteria di Matteo Renzi, che includeva il premio di maggioranza ma non la possibilità di collegamenti tra più liste, è stato di fatto bocciato dal referendum costituzionale del 2016.

Esponenti del Pd esperti nella materia hanno continuato a proporre soluzioni simili, come fa pure un progetto depositato alla Camera a prima firma Giorgia Meloni. Sulla base dell’esperienza, si sa del resto quali sono gli obiettivi da raggiungere e i difetti da evitare: adattare alle specificità della forma di governo nazionale la logica dei sistemi adottati per comuni e regioni.

Le censure operate dalla Consulta sulla legge Calderoli si possono superare prevedendo che il premio venga assegnato solo qualora la coalizione più votata abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei consensi, se il premio viene modulato in modo che non assuma una dimensione eccessiva e che non crei comunque una maggioranza eccessiva a vantaggio dei vincenti (quindi a scapito dei perdenti).

Si può stabilire in sostanza che non sia mai superiore al 12 per cento. Se la coalizione vincente prende il 40,01 dei voti ottiene il 52 per cento dei seggi.

I seggi complessivamente a essa attribuiti potrebbero aumentare in misura graduata se ha preso più voti ma senza mai portarla (per effetto del premio) ad ottenere una maggioranza parlamentare più larga del 55 per cento.

Un sistema simile è compatibile tanto con il voto di preferenza quanto con liste bloccate corte. Ciascuna alternativa ha pro e contro. Sul punto, le opinioni di elettori, politici ed esperti sono cambiate drasticamente nel corso del tempo.

Il voto finale sul punto dipenderà dal calcolo dei parlamentari attualmente in carica riguardo alle loro possibilità di rielezione. Se ci si arriverà, sarà oggetto di accesi dibattiti e grande clamore mediatico, benché sia difficile dire quale alternativa sia davvero preferibile per avvicinare i cittadini alla politica e aumentare la qualità della classe parlamentare.

Clausole e soglie

È cruciale, invece, che sia prevista una soglia di sbarramento anti frammentazione, preferibilmente al quattro per cento, come per le europee, e che questa soglia valga in maniera identica per partiti coalizzati e non coalizzati, che il premio scatti o no.

Si può aggiungere una clausola contro le liste civetta simile a quella presente nella legge Rosato per cui i voti andati a liste con meno dell’un per cento non vengono utilizzati nemmeno per computare la cifra elettorale di coalizione e per assegnare il premio. Ogni altra complicazione è vivamente sconsigliabile.

Con il bicameralismo paritario, si può teoricamente produrre un paradosso: che il premio venga assegnato a due coalizioni opposte, oppure che scatti per un solo ramo del parlamento.

Questo rischio è però oggi molto ridotto dalla revisione costituzionale già entrata in vigore sul voto ai diciottenni per il Senato, che rende perfettamente identiche la due basi elettorali.

Se l’obiettivo non fosse il ritorno al proporzionale puro, ma un accordo sul bipolarismo, potrebbe essere approvata a larga maggioranza anche la revisione costituzionale che due settimane fa ha superato a stento la prima lettura alla Camera con i voti di Leu, Pd, M5s e Iv con la quale si cancella la prescrizione prevista dall’articolo 57 di una elezione “a base regionale” del Senato. La sua entrata in vigore immediata renderebbe inattaccabile l’adozione di sistemi elettorali perfettamente identici per i due rami del parlamento.

Aggiungo che così, nella prossima legislatura, sarà ancora più evidente, e i parlamentari potrebbero magari finalmente prendere atto all’unanimità, che è meglio per tutti, oltre che per l’efficienza delle istituzioni, avere una sola Camera di 600 componenti, sostituendo il Senato con una conferenza Stato-Regioni-Città rafforzata, invece che due doppioni entrambi aggirabili quando il governo ha fretta. Sempre che la vera ragione per tenere in piedi il bicameralismo partitario non sia la duplicazione degli uffici di presidenza (aula, commissioni) e dei connessi benefit.

Nel centrodestra, se è sincera la dichiarazione di Salvini della settimana scorsa, sarebbe tutto più semplice. L’alleanza tra Lega, FI e FdI si potrebbe ricomporre con meno complicazioni: ognuno si presenta con il suo simbolo e con le sue liste, il partito che ottiene più voti esprime il/la premier.

Se non è vero che l’unico obiettivo della “alleanza progressista” è ridurre i danni di una sconfitta data per scontata, cancellato l’imbarazzo di dovere presentare candidati comuni nei collegi uninominali, Enrico Letta e Giuseppe Conte potrebbero provare ad allargare il campo a sinistra e al centro.

Il tempo da qui alla fine della legislatura non è infinito ma sufficiente. Un accordo bipartisan sul sistema elettorale si sommerebbe a quello già registrato sulla politica estera. Il governo Draghi non avrebbe niente da temere, tutt’altro.

La revisione costituzionale e la messa in opera della legge elettorale porterebbero senza dubbio a scavallare l’autunno. Prima delle amministrative ovviamente non se potrà parlare, ma subito dopo sì. Perché no?

© Riproduzione riservata