Il ritorno ad un sistema elettorale puramente proporzionale (con o senza eventuale soglia di sbarramento) ha acquisito negli ultimi anni il sostegno di una molteplicità di attori, per ragioni diverse.

Ci sono ambienti culturali e aree politiche in cui la svolta maggioritaria dei primi anni Novanta è stata vista come una avventura populista e non hanno cambiato idea. Ma hanno cambiato idea anche alcuni tra i principali sostenitori di quella trasformazione, con motivazioni varie.

Secondo una motivazione fasulla presa per oro colato la riduzione del numero dei parlamentari renderebbe il sistema elettorale attualmente in vigore insostenibilmente discriminatorio per i piccoli partiti. 

Con la legge Mattarella (1994-2005) e un Senato di 315 componenti, i seggi senatoriali assegnati con metodo proporzionale in una piccola regione come le Marche erano solo due; nel 2023, con la Rosato e il taglio dei parlamentari, sarebbero tre. Anche tenendo conto di altri aspetti tecnici (scorporo), la soglia di sbarramento implicita era più alta allora.

La vera motivazione per molti parlamentari è fin troppo semplice. I gruppi oggi più numerosi sono condannati alla decimazione, per effetto congiunto della riduzione dei voti rivolti ai rispettivi partiti e della riduzione complessiva del numero dei parlamentari.

Il proporzionale è l’ultima speranza a cui appendono la possibilità di essere rieletti. I timori sono aggravati nell’area “progressista” (Pd+M5s) dalla difficoltà di convergere su candidati comuni nei collegi uninominali.

Secondo un altro argomento, non sarebbe giustificato un sistema maggioritario (o parzialmente maggioritario come la Rosato) concepito per promuovere la formazione di coalizione pre-elettorali, il quale tende quindi a generare un vantaggio in numero di seggi per la coalizione più votata, se poi la coalizione in questione non riesce a governare, si divide, e il “premio” viene quindi sprecato.

Questa possibilità in effetti esiste, anche se in misura minore del 2018 quando la competizione era tripolare e l’elettorato presentava orientamenti nettamente divaricati tra Sud e Nord.

La maggioranza dei ragionevoli

Un ultimo argomento ha particolare presa anche fuori dai palazzi della politica in quanto promette di garantire il “bene comune”.

Può essere sintetizzato così: entrambe le aree politiche hanno componenti estremiste e irragionevoli che pongono veti su scelte o riforme necessarie per l’Italia; con il maggioritario sono destinate a pesare, che vincano gli uni o gli altri; con il proporzionale si formerebbe un governo moderato e ragionevole che le esclude.

Martedì questo argomento è stato usato da Angelo Panebianco sul Corriere, il quale ha evocato una maggioranza che escluda i partiti “putiniani” (termine usato dal titolista) nel quale dovrebbero entrare Pd e Fratelli d’Italia.

Con l’attuale legge elettorale, dice Panebianco, «si formerebbe un governo disunito su quasi tutto ma, soprattutto, disunito sull’essenziale: la posizione internazionale del paese».

Con un sistema proporzionale ci sarebbe invece non la certezza ma almeno la possibilità che si formi «una coalizione con una qualche unità di intenti sulla politica estera».

Questa eventualità sarebbe resa plausibile dalla circostanza che dopo le elezioni il governo dovrà farsi carico di problemi ancora più pesanti (debito, inflazione, recessione) di quelli affrontati negli ultimi tre anni. E sarebbe l’occasione per l’ennesimo tentativo di introdurre riforme istituzionali finalizzate a rafforzare la stabilità dei governi.

L’ipotesi evocata da Panebianco come altre simili si reggono tuttavia su un paio di presupposti.

Poiché è ovvio che Pd e Fratelli d’Italia faranno campagna elettorale promettendo l’esatto contrario (di essere alternativi), la “maggioranza dei ragionevoli” si potrebbe formare solo reiterando lo schema del “governo di necessità” promosso dal presidente della repubblica, su cui i “partiti responsabili” convergono, attraverso una ulteriore sospensione della normale dinamica politica, con una ulteriore politicizzazione del Quirinale, con un premier simil-Draghi o un Draghi-bis. È davvero auspicabile?

Inoltre, Giorgia Meloni, che ha costruito buona parte della sua reputazione e del suo consenso rivendicando la coerenza di chi non partecipa a coalizioni politicamente innaturali, contrarie a quanto promesso agli elettori, dovrebbe mettere in gioco l’una e l’altro sull’altare della politica estera. Quanto è probabile?

Mentre è un fatto che finora sono stati proprio i partiti disallineati sulla politica estera a dimostrarsi più disponibili a spericolate giravolte e oggi si sommano dentro il governo Draghi. In uno schema tornato bipolare sarebbero minoranza sia uno schieramento che nell’altro.

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