Lo scopo della legge Zan non era scoraggiare le aggressioni omotransfobiche con un aumento delle pene: difficile che chi picchia qualcuno soltanto per come si veste, per chi ha deciso di amare o per quello che dice, si fermi a fare un’analisi costi-benefici sul rischio delle sanzioni penali.

Il vero obiettivo della legge era accendere una discussione nazionale, dimostrare con un atto legislativo che le istituzioni e i rappresentanti degli elettori sceglievano di delegittimare i comportamenti di odio. E che, come paese, si sceglieva di sancire nel più formale dei modi uno slittamento culturale, la presa d’atto del diritto di determinare la propria vita a cominciare dal genere senza per questo trovarsi ai margini. Non è successo.

Il percorso parlamentare della legge Zan, che probabilmente si è chiuso ieri, ha dimostrato che il paese è su posizioni diverse: il parlamento ha scelto di difendere le ragioni di chi ha idee, pensieri e atteggiamenti che potrebbero risultare censurabili con la nuova legge.

Le ragioni delle vittime di quell’omotransfobia, e il disagio dei tanti che non si sentono liberi di esprimersi liberamente, sono passati in secondo piano. Oscurati anche da raffinatissime tattiche parlamentari che hanno usato questo terreno come primo regolamento di conti dopo il risultato delle amministrative, tra destre e centrosinistra ma anche e soprattutto dentro quel “campo largo” dei progressisti che sembra sempre più asfittico e sempre meno progressista.

«Hanno voluto fermare il futuro, hanno voluto riportare l’Italia indietro. Sì, oggi hanno vinto loro e i loro inguacchi al Senato. Ma il paese è da un’altra parte e presto di vedrà», ha scritto su Twitter il segretario del Partito democratico Enrico Letta.

Nei momenti difficili il Pd si rifugia sempre dietro le invettive agli anonimi. «Mi vergogno che si parli solo di poltrone», aveva detto a marzo Nicola Zingaretti, mentre si dimetteva proprio da segretario del Pd. Con chi ce l’ha oggi Letta?

Le crepe a sinistra

Se la legge Zan è naufragata è perché non ci hanno più creduto i suoi proponenti. Prima si è sfilata Italia Viva di Matteo Renzi, che alla Camera aveva proposto una legge identica con Ivan Scalfarotto. Poi anche dentro Pd e Movimento Cinque stelle sono emersi dubbi, sfumature, tatticismi.

In un momento rivelatore, l’ex capo politico M5s, Luigi Di Maio, ha fatto capire che lui considera un insulto da cui difendersi il fatto che qualcuno lo sospetti di essere omosessuale. Per fortuna che lui si difende soltanto esibendo la fidanzata Virginia Saba e non con duelli al singolar tenzone.

Col risultato che ieri al senato, in un voto segreto, sedici senatori sono passati col centrodestra e due si sono astenuti, hanno vinto le destre che chiedevano la “tagliola” della fine dell’esame degli articoli e degli emendamenti.

La Lega, a modo suo, è stata coerente fin dall’inizio: ha avversato la legge Zan, ha provato a contrastarla prima nel merito, poi nella procedura, con un infinito ostruzionismo in commissione. Ma non sarebbe riuscita a fermarla senza le crepe nel centrosinistra.

Il Pd di Letta questa volta ha proprio sbagliato i conti: invece di cercare una almeno onorevole sconfitta, già prima dell’estate ha cercato di rinviare il problema (a dopo le amministrative di ottobre) e poi ha aperto a cambiamenti nei punti più delicati (identità di genere) salvo poi scoprire che la disponibilità al compromesso veniva ripagata con una umiliazione in aula. Un disastro, insomma, che rivela un problema più profondo.

Traditi

LaPresse

Sulle questioni dei diritti civili il Pd non è più un punto di riferimento affidabile. Enrico Letta aveva promesso impegni e risultati sullo ius soli, sul voto ai sedicenni e sulla legge Zan.

Ogni tema ha resistito il tempo di un tweet. Le persone che hanno creduto a queste promesse si sono trovate a essere spettatori passivi di un mercimonio tutto interno al centrosinistra, dove nessuno pare interessato alle loro storie individuali.

I diritti civili non sono stati scambiati però con le famose “altre priorità”. Ora che si definisce l’impianto della legge di Bilancio, non si nota un’impronta particolare del Pd. Le proposte redistributive avanzate da Letta sono svanite, a cominciare dall’aumento della tassa di successione per dare una “eredità universale” ai diciottenni.

La legge sul salario minimo è uscita dalla lista delle priorità e anche dal Pnrr. Nella delega fiscale al governo per la riforma del fisco si nota un comprensibile slancio all’efficienza, ma niente che indichi un impatto culturale e politico del Pd per usare il sistema tributario anche in chiave di equità.

Dopo sei mesi di Pd a guida Letta, insomma, la domanda non è tanto quali risultati possa vantare (le vittorie alle amministrative) quanto se ci sia qualche linea rossa. Esistono delle battaglie di principio per il Pd? Di quelle che si combattono fino alla fine e con qualche rischio? O successo e sconfitta pari sono, tranne quando si parla di poltrone e faide tra correnti?

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