Non si capisce che fine ha fatto l’idea di imporre un embargo petrolifero alla Russia: abbiamo discusso per giorni del dilemma posto da Mario Draghi. Ma mentre decidiamo se preferiamo la pace o i condizionatori accesi, per fermare Vladimir Putin il primo passo dell’Unione europea dovrebbe essere fermare le importazioni petrolifere dalla Russia: è la misura che, a confronto con i provvedimenti sul gas, causa il massimo del danno al Putin e il minimo dell’impatto negativo sull’Ue.

Il grosso del petrolio russo arriva in Europa attraverso l’oleodotto Druznba: la Russia non riuscirebbe a vendere altrove tutto il petrolio che l’Ue smetterebbe di comprare perché le sue infrastrutture sono proiettate verso il mercato europeo e non possono essere spostate.

Nel 2020 la Russia ha esportato 260 milioni di tonnellate di greggio, di queste 138 verso l’Europa, 83 verso la Cina e 39 vendute ad altri compratori.

Delle 83 milioni di tonnellate verso la Cina, la metà circa vengono trasportate da un oleodotto che ha una capacità massima di 100 milioni di tonnellate per anno (dati dell’Institute of International Finance).

Questo significa che la Cina potrebbe ricevere soltanto 60 milioni di tonnellate aggiuntive. La Russia non saprebbe a chi vendere altri 80 milioni di tonnellate, mentre l’Unione europea potrebbe abbastanza agevolmente sostituirle, perché il mercato del petrolio è global - tra navi, camion, treni e altro - mentre quello del gas è regionale.

Inoltre, Cina e India potrebbero essere minacciate da sanzioni secondarie, cioè colpite con misure ritorsive se adottano comportamenti volti a neutralizzare l’effetto delle sanzioni occidentali, tipo comprare il petrolio sotto embargo o – cosa più grave – fornire tecnologia vitale per il settore petrolifero russo che al momento è vietata (e in misura parziale lo era già dal 2014, dopo l’annessione della Crimea, con pesanti conseguenze per la produttività delle imprese petrolifere russe).

Effetti collaterali

C’è un ovvio problema: se l’embargo è soltanto parziale, e si riduce l’offerta di petrolio, il prezzo di quello che rimane sul mercato aumenta. La Russia potrebbe addirittura guadagnarci se continuasse a esportare meno petrolio ma a prezzi più alti, specie se il rincaro si trasferisse in automatico al gas (visto che molti contratti agganciano un prezzo all’altro).

Il prezzo del gas europeo continua a essere sopra i 95 euro per megawatt-ora, prima della guerra era sotto gli 80, ma la tendenza al rialzo è cominciata da molto tempo e per ragioni non direttamente connesse a Putin (a fine 2020 era 14 euro), bensì a transizione ecologica e altre scelte di politica energetica.

Il prezzo internazionale del petrolio (Brent) è intorno ai 110 dollari al barile, prima della guerra era meno di 95, ma il greggio russo viene comprato ormai con uno sconto di quasi 40 dollari rispetto al Brent, mentre lo sconto era di solito un paio di dollari, perché prima i mercati prezzavano la qualità inferiore mentre ora il rischio dell’embargo e quindi il pericolo che un investitore compri petrolio che poi non potrà ritirare o rivendere.

Sfidare Putin

Per evitare che le sanzioni abbiano effetti indesiderati – cioè che arricchiscano Putin e alimentino il budget militare russo invece di ridurlo – l’embargo deve essere accompagnato da altre misure. Il blocco della tecnologia e dei componenti di ricambio è fondamentale: presto in Russia non saranno più sicuri gli aerei e i treni, privati dell’accesso alla manutenzione internazionale necessaria, figurarsi gli impianti petroliferi.

E poi i conti vincolati: invece che lasciare a Putin la possibilità di cercare altri compratori per il suo petrolio (o gas), molto meglio ritirarlo e depositare i soldi su conti inaccessibili da parte dell’attuale governo: soltanto al termine delle ostilità in Ucraina, la Russia avrà quello che le spetta.

Certo, Putin può sempre fare causa (in tribunali dei paesi con cui è in atto una guerra economica… auguri!) oppure rompere i contratti, esporsi ad altre sanzioni e cercare altri partner.

Le sanzioni hanno già prodotto molti effetti ma non hanno ancora colpito davvero il settore cruciale, quello energetico, preservato al punto che la Russia continua a pagare 1,3 miliardi di dollari di tasse di passaggio all’Ucraina con la quale è in guerra per mandare il suo gas verso l’Europa.

Se Putin sta lanciando la sua offensiva finale in Donbass per poi trattare da posizioni di forza, anche l’Ue dovrebbe fare lo stesso sul campo di battaglia che le è proprio, quello della guerra economica.

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