«Ma come facevi a lavorare in Pronto Soccorso se pensavi tutte quelle cose lì?»  mi chiede Bianca dopo aver letto il mio libro. Al momento non capisco di cosa parli, poi realizzo che «quelle cose lì» sono proprio l’essenza di quello che è stato il mio modo di fare il medico in quasi quarant’anni di onorato servizio. Non sempre al meglio forse, non da grande clinico di sicuro, ma insomma, certamente avendo sempre ben presenti «quelle cose lì».

In parole semplici mi sono sempre chiesto come si possano prendere  decisioni necessarie qui e subito pur restando consapevoli delle basi incerte del sapere su cui le tue decisioni si basano.

D’altra parte questa domanda non è  certo una scoperta mia, né nasce solo da una riflessione personale, visto che  ne parlava già Augusto Murri, uno dei padri della medicina italiana moderna, quando ai primi del Novecento scriveva: «Nella clinica come nella vita, bisogna dunque avere un preconcetto, uno solo, ma inalienabile - il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero può essere falso». 

Sono passati più di cento anni da allora e la medicina ha fatto passi da gigante, ma il senso di quelle parole è vero oggi più che mai.

Convivere con l’incertezza è infatti il nucleo profondo della professione medica, così essenziale e così radicato che molti medici non lo percepiscono neppure più ed esibiscono a sé stessi e agli altri certezze e convinzioni che hanno in realtà basi molto fragili.

Le scelte senza certezze

Un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista British Medical Journal (BMJ) ha calcolato che solo il 18 per cento delle decisioni dei medici di medicina generale trovano supporto in dati sperimentali di buona qualità. Per essere più precisi e ridurre l’ansia che questa affermazione potrebbe ingenerare, devo precisare che il 18 per cento a cui si riferisce il BMJ riguarda gli interventi medici sostenuti da un’evidenza scientifica di livello A, la più alta e affidabile, mentre  un ulteriore 38 per cento degli atti medici è sostenuto da  una evidenza di grado B, di qualità minore, ma non per questo necessariamente scorretta.

Anche facendo la tara sull’affidabilità di questi numeri  (dubitare sempre!) il loro messaggio è chiaro: moltissime decisioni in ambito medico, forse la maggior parte, vengono prese  senza che ci siano studi scientifici in grado di  corroborarle. 

Questo può apparire  paradossale in un mondo dove ogni anno le riviste di medicina pubblicano centinaia di migliaia di nuovi studi, ma chiedete a chiunque faccia questo mestiere e vi confermerà che è così.  Dove non arrivano gli studi clinici aiutano  la conoscenza della  fisiopatologia, le similitudini con altre situazioni meglio documentate, il parere degli esperti, l’esperienza, il buon senso.

Queste riflessioni sono state fino ad oggi appannaggio  quasi esclusivo della professione medica, allargata ad uno sparuto gruppo di filosofi della scienza e ad un numero di persone non facilmente quantificabile che, per interesse culturale o per ipocondria, hanno voluto farle proprie.  Fino ad oggi dicevo, perché da poco più di un anno a questa parte, tutto il mondo non sembra occuparsi di altro.

La pandemia di Covid-19 è stato il detonatore che ha fatto esplodere l’interesse per il metodo scientifico, la ricerca medica, le motivazioni che stanno alla base delle scelte di clinici, virologi, epidemiologi. 

In realtà molti non si rendono conto che è di questo che si discute, perché pongono quelle che a loro sembrano domande semplici e chiedono agli scienziati risposte chiare e rassicuranti: «L’epidemia si ripeterà l’anno prossimo?», «Per quanto tempo sarò protetto dal vaccino?», «Posso accettare con serenità un richiamo con il vaccino a vettore virale?». E’ dalle risposte degli esperti però che emergono i problemi metodologici: «Non sappiamo», «Bisognerà attendere nuovi dati”, «Siamo cautamente ottimisti».

Come impariamo

Due sono le riflessioni importanti che possiamo trarre dall’esperienza di questo anno eccezionale.  La prima è che la vera differenza tra il momento attuale e il passato anche recente sta tutta nel clamore mediatico, peraltro giustificato dal fatto che milioni di persone sono più o meno direttamente minacciate nello stesso momento da un incombente problema di salute.  Conta poco che la minaccia sia rappresentata da un reale rischio di morte, dalla preoccupazione  di poter  contagiare una persona cara o dalla perdita del lavoro.  Tutti siamo toccati, tutti vogliamo sapere e tutti desideriamo fare ascoltare la nostra voce.

Per il resto non c’è molto di nuovo sotto il sole.  Da quando gli studi clinici controllati sono diventati lo strumento principe per la valutazione dei farmaci e più in generale dei trattamenti medici, la ricerca ha sempre  seguito il medesimo percorso.

Studi in vitro, studi nell’animale, studi di fase uno e due sui volontari sani o malati per verificare la tollerabilità e decidere dosi e tempi di somministrazione, infine gli studi di fase terza  (i cosiddetti clinical trials) dove si sperimenta l’intervento (il farmaco, il vaccino, la chirurgia) su alcune centinaia o migliaia di persone  confrontando i risultati con quelli di un trattamento placebo.

Questo percorso è esattamente quello che è stato seguito, più velocemente del solito, ma con la stessa attenzione, anche per i vaccini contro il virus SARS-CoV-2  che causa il Covid-19. E,  come accadeva in passato, abbiamo trovato  risposte certe a domande precise: i vaccini funzionano? Sì. Gli effetti collaterali gravi sono frequenti? No. Ma, di nuovo come è sempre accaduto, non è stato possibile identificare gli effetti collaterali gravi ma rari (una tra tutti l’associazione trombosi-piastrinopenia) prima che alcuni milioni di persone fossero state vaccinate.

Ancora, non siamo stati in grado di dire se l’effetto della vaccinazione durerà otto mesi, un anno, o più, perché l’unico modo per saperlo è lasciare che il tempo passi e che renda la risposta evidente.  Non possiamo sperimentare il futuro, solo viverlo.

Lo scienziato sa di non sapere

La seconda riflessione riguarda il nostro difficile rapporto con la scienza. Per molti la scienza è un insieme di conoscenze tecniche assodate che sono note agli scienziati, a loro volta  vissuti come i depositari di un sapere troppo settoriale per essere conosciuto ai più.  In realtà lo scienziato  esercita il proprio ruolo proprio là dove le risposte ancora non ci sono, alle frontiere della conoscenza. 

Sulla base degli esperimenti fatti e dei dati elaborati in passato, lo scienziato può fare delle ipotesi e indicare i percorsi da seguire  per trasformarle in tesi dimostrate.  Può cioè indicare  gli strumenti scientifici e i metodi sperimentali che si devono applicare ad un determinato problema  per poterlo risolvere, o quanto meno per conoscerlo meglio.

Quando lo scienziato, magari punzecchiato da un conduttore televisivo, esprime un “parere”, in qualche modo abdica al proprio ruolo e scende al livello di tutti noi, persone che sappiamo poche cose, ma vogliamo giudicare tutto. Mi avvicino alle conclusioni riportando le due citazioni che aprono il capitolo conclusivo del mio libro. La prima è di   Karl Pearson (1857-1953), matematico e statistico britannico, scriveva: «Il metodo scientifico che esamina fatti non è tipico di una determinata classe di fenomeni e di lavoratori; è applicabile ai problemi sociali come a quelli fisici, e bisogna guardarsi bene dal ritenere che uno spirito scientifico sia una peculiarità della professione di scienziato». 

La seconda è di Alexis Carrel (1873-1944), chirurgo e biologo francese, ribadiva: «La scienza deve essere compresa nel suo significato più ampio, come un metodo per capire tutta la realtà osservabile e non semplicemente come uno strumento per acquisire conoscenze specialistiche». 

E’ dunque l’educazione scientifica   quello di abbiamo maggiormente  bisogno per comprendere i nuovi fenomeni ai quali stiamo assistendo e rispondere in modo appropriato alla complessità dei tempi moderni. Sappiamo tutti che l’unico luogo che può nutrirla e trasmetterla è la scuola.  Sì, proprio quella scuola che dalla pandemia di Covid-19 ha sofferto più di qualunque altra istituzione.

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