Cara Elly Schlein,

usiamo uno strumento inusuale – una lettera – per sollecitare una risposta a domande che sono state poste con insistenza da parte di molte donne e di molti uomini del mondo della ricerca e della cultura ma non hanno finora trovato ascolto.

Queste domande ruotano in fondo tutte intorno a una questione centrale: perché il suo impegno per il rinnovamento del Pd non si è accompagnato finora alla riattivazione del circuito tra politica e cultura?

Non c’è in questa domanda un’aspirazione a ribadire una primazia del mondo della produzione culturale e della ricerca scientifica su quello della politica. C’è piuttosto la consapevolezza che senza un dialogo sostenuto e organizzato tra questi due mondi, rispettoso della reciproca autonomia ma anche capace di coglierne la necessità, l’esperienza stessa della sinistra e il futuro delle istituzioni democratiche sono sempre più a rischio. Come mostrano chiaramente le vicende politiche nazionali e internazionali più recenti.

Una nuova “promessa”

In questa prospettiva, riteniamo che lo sforzo del Pd sotto la sua guida di concentrarsi su alcune questioni concrete come il salario minimo e il lavoro povero, la sanità, la casa, sia stato un cambiamento importante ma ancora troppo limitato.

Infatti, snocciolare punti programmatici di riforma diventa meno efficace se queste proposte non sono collocate dentro un quadro di analisi che metta meglio a fuoco le ragioni del declino della sinistra e dia il senso di una diversa concezione delle relazioni economiche e sociali e delle condizioni di serio pericolo nelle quali si trovano le democrazie.

Non è neanche del tutto corretto affermare che i programmi ci sono e basta trovare il consenso nell’ambito del centro-sinistra per realizzarli. Sembra invece necessario elaborare una nuova “promessa”. A questo servirebbe un dialogo più intenso tra politica e cultura. Le chiediamo, perché questo dialogo non è stato promosso? E non ritiene che questo abbia influito sulla capacità di realizzare gli obiettivi di rinnovamento da lei promessi?

Un «riformismo radicale»

Con una formula sintetica, che è stata anche usata all’inizio della sua esperienza di segretaria del partito, si tratta di immaginare un «riformismo radicale». Ovvero mostrare che ci può essere una redistribuzione sostenibile, fondata su un sistema fiscale progressivo, capace di contrastare le disuguaglianze sociali senza compromettere la crescita e il buon funzionamento dell’economia di mercato; e ci può essere una regolazione efficace che favorisca l’efficienza dei mercati e non le rendite, e faccia della tutela dell’ambiente una leva dello sviluppo.

Questi temi non sono astratti. Al contrario, nascono dalla comprensione delle trasformazioni nelle relazioni tra le classi sociali che possono mettere a repentaglio la stessa democrazia.

Infatti, l’indebolimento delle aggregazioni sociali – quel che gli studiosi chiamano «solitudine sociale» – che si registra nelle parti più povere della società si traduce spesso in un declino di partecipazione elettorale o nel sostegno di proposte politiche xenofobe e razziste.

Cittadini, partiti e istituzioni

La giustificata preoccupazione per l’astensionismo elettorale deve tradursi in una valutazione delle opportunità di influire sui partiti e le istituzioni da parte dei cittadini. Un’opportunità che è sempre più diseguale.

Certo, i cittadini più deboli sotto il profilo socio-economico hanno le loro forme associative, ma spesso sono fragili o incapaci di attirare l’interesse di candidati e rappresentanti politici; spesso sono associazioni di breve durata.

In sintesi, i cittadini socialmente più deboli non hanno una vera e propria rete di riferimento che li renda capaci di esercitare l’advocacy. Il degrado della forza associativa sta spesso insieme a quello della vita sociale nelle aree più insalubri o depresse del paese e delle periferie delle città in primo luogo.

Progetto e programma

Non si può allora pensare di elaborare un progetto politico di governo alternativo a quello della destra senza raccogliere le competenze e le esperienze associative sparse nel paese. I temi del lavoro, della lotta alla precarietà, della fiscalità progressiva, del buon funzionamento dell’economia di mercato, ma anche quelli della qualità della vita (l’assetto delle città, i trasporti, la casa, i servizi) e dell’organizzazione culturale sono in sostanza squisitamente democratici. E vanno declinati in una visione complessiva da elaborare insieme con le competenze e le esperienze più significative: un progetto e un programma.

Ci può essere insomma un riformismo più efficacemente riformista, ed è sbagliato etichettarlo a priori come una forma di massimalismo antisistema, lasciando le esperienze fallimentari della Terza Via come unico punto di riferimento del riformismo.

Non pensa allora che per muoversi in questa direzione sia necessario uscire dalla logorante guerra di trincea interna al partito e aprirsi invece al dialogo tra politica e cultura tra politica e società civile?

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