Ogni documento ufficiale, ogni annuncio, ogni decisione di politica monetaria rappresenta un passo verso il ritorno dell’Europa delle regole e del controllo dei conti pubblici. Il negoziato politico, ormai, è sulla velocità, non sulla direzione, e questo per un paese ad alto debito come l’Italia rappresenta un ovvio rischio.

La Commissione europea, nelle sue “raccomandazioni” di primavera, ha esteso per un altro anno la sospensione delle regole del patto di Stabilità, non scatterà il ritorno alla normalità nel 2023, ma soltanto l’anno dopo.

Motivazione: «L’aumentata incertezza e i forti rischi al ribasso per il quadro economico nel contesto della guerra in Ucraina, gli aumenti senza precedenti dei prezzi dell’energia e le perduranti interruzioni nelle catene di fornitura».

Per un altro anno, quindi, i paesi dell’Ue avranno una certa flessibilità bilancio. Ma soltanto per gestire queste emergenze e i conseguenti stabilizzatori automatici, non per spingere la ripresa post-pandemia.

Traduzione concreta: si possono usare risorse a debito per ridurre la bolletta dell’energia con qualche sostegno mirato, oppure interventi a sostegno dei rifugiati ucraini, ma niente più ristori a pioggia, addio interventi generalizzati che mobilitano miliardi solo per far girare l’economia (tipo Superbonus edilizi).

«Il fatto che gli Stati membri possano deviare dal patto di Stabilità non significa che debbano farlo», ha avvertito il ministro delle Finanze tedesco, il liberale Christian Lindner, in una intervista al Financial Times.

Non si parla più di rendere permanente il metodo di raccolta comune di fondi sperimentato con il Next Generation Eu, anche la nuova iniziativa anti-crisi energetica (RePower Eu) sarà finanziata soltanto con gli avanzi di Next Generation.

Il pendolo sta tornando verso l’austerità: la Banca centrale europea, ha lasciato intendere Christine Lagarde, si prepara a chiudere l’era dei tassi negativi sui depositi a luglio: finora le banche erano di fatto tassate se lasciavano liquidità sui conti della banca centrale, invece che essere remunerate (sia pure di pochissimo) come una volta.

Gli analisti si aspettano che al più tardi a luglio la Bce alzi il costo del denaro dello 0,25 per cento, dopo la progressiva riduzione dei programmi di acquisto di titoli di Stato.

Le banche centrali

La Bce segue dunque la Federal Reserve americana che ha già iniziato ad aumentare il costo del denaro per combattere un’inflazione che resta sopra l’8 per cento, in Gran Bretagna la Bank of England sta duellando con un’inflazione attesa per il 2022 al 10 per cento.

Il problema, scrive la presidente della Bce Christine Lagarde in un blog ufficiale, è che gran parte dell’inflazione europea è dovuta all’aumento dei prezzi dell’energia, non al surriscaldamento dell’economia (come in parte è negli Stati Uniti, dopo anni di politiche monetarie espansive e di crescita rapida con l’economia vicina al pieno impiego): in meno di un anno, l’economia dell’eurozona ah trasferito al resto del mondo 170 miliardi di euro, l’1,3 per cento del proprio Pil, attraverso i prezzi record dell’energia (tra i principali beneficiari: la Russia di Vladimir Putin).

Alzare i tassi non fermerà i rincari, se arrivano dall’esterno, a meno di non ridurre la domanda attraverso una brusca frenata della crescita, o addirittura una recessione.

Mentre le istituzioni europee si preoccupano dell’inflazione, quelle americane già pensano a una recessione che “non è inevitabile”, come ha provato a dire il presidente Joe Biden, che teme per le elezioni di metà mandato.

Nel primo trimestre del 2022, l’economia americana si è ridotta dell’1,4 per cento, ma sembra solo l’antipasto: il crollo dei titoli tecnologici a Wall Street e i segnali preoccupanti che arrivano da business più tradizionali come le catene di largo consumo tipo WalMart sembrano indicare un insieme di forze che spinge la prima economia del mondo verso una recessione che potrebbe arrivare prima del previsto anche in Europa.

In questo quadro l’Italia è, come sempre, la più esposta: lo spread, la differenza tra titoli italiani e tedeschi a dieci anni, è ormai sopra 200 punti, ma la situazione dei conti pubblici resta sotto controllo. Anzi, al ministero del Tesoro osservano una situazione migliore rispetto al 2021, nel primo trimestre il settore statale ha registrato un fabbisogno di 30 miliardi, 11 in meno che nel 2021.

Se si guardano i primi quattro mesi, stiamo messi addirittura meglio che nel 2019: non c’è un problema immediato di costo del debito, grazie alle emissioni fatte nei momenti di tassi molto bassi.

Ma c’è il solito problema delle riforme: come ribadiscono le raccomandazioni della Commissione, il debito dovrebbe scendere dal 150.8 per cento del Pil nel 2021 al 147.9, ma cioè che garantisce la sostenibilità di un simile indebitamento è soprattutto uno sforzo per aumentare la produttività e la crescita.

Senza vedere le riforme, gli investitori saranno sempre più restii a fidarsi dell’Italia: questo lo sa bene il premier, Mario Draghi, che ha bisogno di approvare la legge sulla Concorrenza a ogni costo per dare un segnale.

I partiti, però, sembrano meno consapevoli di lui del mutato quadro macroeconomico.

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