Grande rilievo è stato dato alle storie di licenziamenti, delocalizzazioni e chiusure di aziende e siti produttivi: strategie che il governo vorrebbe contrastare con provvedimenti che, comunque formulati, costituiscono di fatto una “tassa” sui licenziamenti, che ha l’intento di redistribuire il reddito dalla proprietà dell’azienda, sotto forma di una minore redditività del capitale, ai suoi lavoratori.

Gli obiettivi del governo (tutelare il benessere e il progresso economico di chi lavora) sono condivisibili, ma provvedimenti come quelli allo studio sono controproducenti rispetto alle finalità e non risolvono gli elementi di debolezza del nostro sistema economico che sono invece la causa prima di licenziamenti e delocalizzazioni.

La più eclatante manifestazione di queste debolezze è l’ormai endemica crescita zero della produttività: non ci può essere crescita stabile dei redditi e dell’occupazione, senza crescita della produttività.

Chi compra e chi vende

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Perché questi provvedimenti sono controproducenti? Bisogna ricordare che quando una multinazionale, un fondo di private equity, o un’altra società, compra un’azienda italiana, c’è un suo azionista che la vende, spesso perché è sottodimensionata per competere, o finanziariamente debole e non riesce a ricapitalizzassi, o in un settore in crisi, o non è organica alle altre attività di un conglomerato, o ha un problema legato al cambio generazionale nella famiglia dell’imprenditore, o manca la capacità manageriale.

Tutti casi in cui le prospettive sono precarie, o la struttura proprietaria è inadeguata a sostenere la crescita aziendale. Chi la compra tipicamente aggrega l’azienda in una realtà più grande, dalle dimensioni adeguate a competere a livello internazionale, e supplisce a carenze manageriali, finanziarie, o della struttura proprietaria. 

Basta guardare ai casi recenti. Whirpool, che chiude lo stabilimento di Napoli, aveva rilevato Indesit in crisi: una delle tante aziende italiane di elettrodomestici (un settore in cui eravamo leader) inglobate da grandi gruppi, come Candy passata ai cinesi di Haier e Zanussi, Zoppas e Ignis agli svedesi di Electrolux.

La ex-Embraco produceva compressori per frigoriferi, originariamente della Fiat quando era un conglomerato privo di logica economica che produceva di tutto.

L’impianto fiorentino di Gkn (anche questo ex-Fiat) e Giannetti Ruote sono piccole realtà della componentistica auto: un settore in Italia eccessivamente frammentato e in segmenti a basso valore aggiunto, ma altrove in grande trasformazione tecnologica per via dell’auto elettrica e a guida autonoma, come dimostra la recente acquisizione per quasi 8 miliardi della tedesca Hella (leader nell’elettronica avanzata per auto come radar e sistemi di illuminazione) da parte della francese Faurecia (scissa da Peugeot). 

Si acquista un’azienda solo se il rendimento atteso dell’investimento eccede il suo costo del capitale: provvedimenti che aumentano il costo di riorganizzazioni, ristrutturazioni e chiusure di impianti, abbassano il rendimento atteso, a parità delle altre condizioni, riducendo la convenienza dell’investimento.

Meno capitali stranieri

Con i provvedimenti allo studio del governo, ci saranno quindi meno capitali stranieri disposti a investire in aziende italiane sottodimensionate, in crisi, deboli finanziariamente, con carenze manageriali o altro.

E siccome di multinazionali o fondi italiani interessati e capaci a ristrutturare, risanare o aggregare ce ne sono ben pochi, disincentivare i capitali stranieri come il governo vorrebbe fare, non serve a sostenere l’occupazione perché aggrava il problema delle aziende dalle prospettive incerte.

Questo non significa che tutti gli investimenti esteri vadano a buon fine: ma che più investitori ci sono, maggiori le possibilità che le aziende italiane sopravvivano e crescano. Nè significa che gli imprenditori italiani cedano alle multinazionali solo aziende con poche prospettive: basti pensare ai tanti marchi italiani nel lusso ceduti a gruppi stranieri.

Le vicende citate sono un segno evidente della debolezza della nostra struttura produttiva: aziende troppo piccole per competere efficacemente, e agire da aggregatori; e attive in settori maturi, a bassa crescita di produttività.

La stagnazione pagata dai dipendenti

Il Rapporto sulla Competitività dell’Istat mostra chiaramente come negli ultimi 20 anni le aziende italiane abbiano dovuto ridurre costantemente la crescita salariale per mantenere i margini a fronte di una produttività declinante; l’opposto della Germania dove i margini sono migliorati pur con salari in costante forte crescita grazie ad altrettanto forti incrementi di produttività.

Un’analisi riportata dal Financial Times sulle caratteristiche delle 100 società quotate di medie dimensioni (escluso finanza, energia e servizi di pubblica utilità) che negli ultimi 5 anni hanno avuto il maggior incremento di valore (con margini positivi) aiuta a capire le ragioni della scarsa produttività dell’industria italiana.

Sfatando un mito, il 56 per cento delle società individuate nell’analisi sono europee, contro il 33 delle americane: ma ben due terzi vengono da Gran Bretagna, Svezia e Germania; nessuna è italiana.

La ragione è che metà delle società leader nella crescita operano nella sanità e tecnologia, e un altro 20 per cento nei beni di consumo durevoli; ma solo 18 nei beni industriali e di consumo di prima necessità (come gli alimentari), dove invece l’Italia è maggiormente presente.

Dunque, non solo abbiamo imprese sottodimensionate, che prediligono il controllo alla crescita (anche se quotazione e largo flottante sono la via migliore per crescere tramite acquisizioni), e investitori istituzionali che non vogliono o sanno investire nel capitale di rischio; ma anche troppe risorse in settori maturi.

Le responsabilità della politica

Spesso si guarda con orgoglio alla quota di esportazioni delle nostre imprese, ma per la produttività è l’indicatore sbagliato. Delocalizzazioni e licenziamenti sono solo la spia di una debolezza di cui la classe imprenditoriale italiana porta una grande responsabilità.

Responsabilità che grava anche sullo Stato. Il governo chiede ora a chi chiude e licenzia di restituire i fondi pubblici ricevuti. Giusto. Ma quei fondi non dovevano essere concessi perché rischiano di essere solo un sussidio per conservare posti di lavoro in aziende altrimenti non competitive, oltre a creare a un problema di azzardo morale perché si regalano risorse pubbliche a un investitore privato.

Di fatto è una politica dei redditi impropria, seguita dai governi di tutti colori, che è anche la vera ragione di una presenza pubblica massiccia nel capitale delle aziende italiane (direttamente dello Stato e degli Enti Locali, o tramite Cassa Depositi e Prestiti, Invitalia eccetera) che non ha eguali nel mondo occidentale; e dello Stato diventato il principale investitore nel mercato dei capitali privati (la Borsa).

Ingenti capitali pubblici immobilizzati per preservare artificialmente (e con scarsi risultati) l’occupazione; una perpetrazione dello status quo che   ostacola la riconversione dell’economia verso settori a più elevata produttività, aggravando così il problema di occupazione e crescita salariale che si vorrebbe risolvere.

Capitali che sarebbero meglio impiegati in una vera, grande riforma del welfare e degli ammortizzatori sociali, e del sistema educativo di istruzione e formazione.

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