Più che di un centro (o magari più di uno) la politica italiana avrebbe bisogno di un baricentro. E cioè di trovare un punto su cui far poggiare i suoi fragili equilibri e la difficoltosa ricerca di un suo comune sentire. Qualcosa che riguarda il tempo lungo delle istituzioni più che l’affanno quotidiano della disputa politica ed elettorale.

Un modo di stare insieme, insomma, o almeno di accorciare le distanze tra gli uni e gli altri, tessendo una trama di condivisioni dentro la quale trovare il modo di rendere più costruttiva la contesa pubblica. In altre parole, qualcosa che leghi gli uni agli altri, consentendo a ognuno di restare quello che è. E guadagnando però la consapevolezza che fuori dai propri confini esiste un mondo con cui la buona politica sa andar d’accordo, almeno un poco.

Tutto questo ha a che vedere, più di quanto non sembri, anche con il destino del centro.

Le due stagioni

Nella ormai lunga vita della repubblica il centro ha vissuto molte traversie, attraversando almeno due stagioni. La prima stagione ovviamente è stata quella democristiana ed è durata quasi mezzo secolo come tutti sappiamo. La seconda è stata quella del bipolarismo, e ci ha condotti poi fino alle soglie dei molti populismi che ne sono seguiti. Naturalmente si tratta di una periodizzazione tagliata un po’ con l’accétta, al modo in cui vennero disegnati i confini di certi stati africani all’indomani del colonialismo. Ma l’idea è quella.

Un lungo tratto di storia che il centro ha governato, anche con un certo dinamismo. E un tratto più breve in cui ha fatto opposizione, anche quando si trovava a condividere i governi altrui.

Quelle due stagioni sono poi andate scolorendo l’una nell’altra, fino a confondersi e a regalarci quasi una fantasia distopica. E invece sarebbe bene distinguerle, dato che un piccolo abisso le separa. 

La pedagogia dei partiti

La prima stagione è stata per così dire centripeta. Nel senso che le forze di centro, la Democrazia cristiana soprattutto, si sono insediate nel bel mezzo della disputa dell’epoca e hanno fatto del loro meglio perché la democrazia costruita dopo la guerra fosse a sua volta, per quanto possibile, una landa di centro.

Voglio dire – paradossalmente ma non troppo – che sono state progressivamente attratte verso il centro anche quelle forze che ne erano più lontane. La Dc è durata mezzo secolo appunto perché ha improntato largamente il modello politico di quel tratto di storia. E anche le forze che ne erano più lontane hanno subìto in qualche misura l’attrazione di uno schema politico tracciato quasi a emulazione del modo di pensare che era tipico del partito guida dell’epoca.

Si pensava allora che la radicalizzazione dello scontro fosse un male da evitare, o almeno da contenere. I partiti si dedicavano alla pedagogia della loro stessa base militante ed elettorale. E per quanto aspre potessero essere certe controversie – e lo erano – il sentire comune di quasi tutte le tribù dell’epoca richiedeva loro di amministrare i conflitti di quella stagione con una certa felpata prudenza.

Gli umori del paese, anche i più estremi, dovevano così passare al setaccio dei partiti, e venirne in qualche misura attutiti, gestiti, resi meno cruenti di quanto le parole d’ordine di allora non potessero suggerire.

Una Seconda repubblica

Non dirò che fossero tutti, chi più chi meno, “democristiani”. E neppure che fossero democristiani la gran parte degli italiani. Semmai mi verrebbe da osservare che talvolta neppure gli elettori della Dc erano democristiani fino in fondo. Ma c’era tuttavia un sentimento comune, o almeno un istinto, che spingeva le forze politiche di quella stagione a convenire sul fatto che la nostra fosse una democrazia essenzialmente fondata su una ricerca di equilibri. E cioè, per le forze di governo, sull’insediamento al centro. E per le forze di opposizione, sulla conquista di un pezzo di centro.

Con la fine della Prima repubblica è stato messo al bando proprio questo modo di vedere le cose. E di lì in poi il nostro antico costume politico si è capovolto quasi nel suo contrario. Laddove prima regnava la prudenza, si è affermato l’ardire. In luogo dell’attesa, è prevalsa una certa frenesia. E il conflitto che prima era tenuto a bada come un rischio, è diventato la metafora – l’illusione? – di una stagione nuova, finalmente libera di avventurarsi oltre gli angusti confini di un tempo. È stato su queste basi che ci si è convinti di poter edificare una “Seconda” repubblica. Non più democristiana, inevitabilmente.

Centristi ai margini

In questo nuovo scenario i centristi si sono trovati per lo più ai margini. E si sono fatti forti della loro marginalità per recuperare almeno una parte della centralità perduta. Sono stati gli anni dei moniti contro gli eccessi del bipolarismo “muscolare”, delle prediche contro l’incapacità dei due poli di trovare una pur minima base d’intesa, delle denunce contro le riforme istituzionali fatte malamente a colpi di maggioranza e perfino degli inutili insegnamenti di galateo rivolti ai (provvisori) vincitori di quella stagione.

Ognuno è stato centrista a modo suo, e i modi erano più di uno. Ma il senso comune di quella stagione consisteva nel richiamo a una cultura di governo meno esclusiva, meno faziosa, più capace di vedere l’intero campo di gioco e non solo la porzione che se ne era occupata e quasi presa in ostaggio. È una lunga storia di tentativi vòlti a correggere una deriva lungo la quale la politica non sembrava più capace di elaborare il senso comune delle cose.

In mezzo al guado

Di quel periodo parlo ovviamente anche in prima persona. L’obiezione che molti di noi postdemocristiani rivolgevamo a Silvio Berlusconi (ma anche, specularmente, a Romano Prodi) era che non si sarebbe mai data solidità a un’alternanza che fosse tutta giocata sulla demonizzazione dell’avversario.

E anche certi richiami all’antico galateo politico, che all’epoca sembravano quasi mettere in scena un minuetto un po’ stucchevole, volevano invece richiamare un codice repubblicano che era stato un punto fermo persino nel pieno della guerra fredda.

Così però il “centrismo” cambiava di segno. Non era più una filosofia di governo, solida e robusta. Era una testimonianza. Si cercava di correggere un indirizzo che però a quel punto sembrava essersi radicato nelle corde più profonde del paese. E infatti noi centristi di allora siamo rimasti per così dire in mezzo al guado. Non più così forti da imprimere il nostro indirizzo. Non così deboli da accondiscendere all’indirizzo altrui. E non così rassegnati da non pensare che prima o poi il gioco si sarebbe potuto capovolgere a nostro favore.

Solo una nicchia

Nel frattempo le cose sono cambiate in modo tale da darci, insieme, qualche ragione in più e qualche forza in meno. E infatti, dopo aver attraversato il guado del bipolarismo ci siamo trovati infine nel mare in tempesta del populismo. Così ci siamo sentiti a un tempo più estranei al sentimento di protesta di tanti elettori (molti anche provenienti dalle nostre parti) e però anche più convinti delle nostre buone, buonissime ragioni. E tanto più in seguito, a fronte del disastro dei populisti chiamati alla prova del governo.

Ora, appunto, siamo daccapo. Convinti che il nostro compito debba essere quello di garantire un equilibrio di cui la politica e il paese (soprattutto) hanno bisogno. Eppure tagliati fuori dalle grandi correnti elettorali che attraversano questo passaggio storico. La lettura dei giornali ci racconta quasi ogni giorno che è in atto il tentativo di rifondare qualcosa. E quel residuo di vitalità e di furbizia che accenna alle virtù centriste promette che qualcosa accadrà.

È possibile, certo. Ma assai improbabile, mi viene da dire. Perché il mitico “centro” che una volta si proponeva come il riassunto del paese, l’intersezione di così tante delle sue sensibilità ed esigenze, viene invece ora a offrirsi come una nicchia. Preziosa, ma minimale. E direi perfino orgogliosa di quel suo potere di coalizione che rende di tanto in tanto i suoi consensi numericamente decisivi. A condizione, s’intende, di trovare chi quelle coalizioni allestisca e renda magari vantaggiose.

Le difficoltà

Sbaglierò, probabilmente. Ma in tutti questi tentativi di mettere al mondo centri nuovi, nuovissimi, o all’opposto di rianimare centri più attempati non mi riesce di vedere quei segni di vitalità che potrebbero fare la differenza.

Non perché manchino il talento delle persone e la loro buona volontà. Ma perché sfugge la portata della sfida. In fondo, il problema è ancora quello posto a suo tempo dalla Dc. Il centro ha senso in un paese centrista. Ma in un paese che da anni si trova in fuga dall’idea stessa della virtù centrista, immaginare di ritrovare una strada senza cambiare la mappa a me sembra una pura velleità.

Si dirà che il centro è anch’esso una forma di parzialità, la scelta di una porzione di campo. Ma esso è anche, e non può non essere, un perenne tentativo di uscire dall’angolo, quasi un’ambizione – non dirò una pretesa – di universalità. Vecchio o nuovo che sia, il centro non può svilupparsi dentro confini troppo angusti, e tanto meno proporsi come una forma di utilità marginale. È proprio questa sua caratteristica che gli impedisce di limitarsi a vivacchiare a stento in terra straniera.

Le riforme

Ci si dovrebbe dedicare, semmai, ad aggiornare una cultura politica sulla quale si è depositato un fitto strato di polvere. E più ancora a ragionare sul riordino delle istituzioni, dato che è al loro interno che si giocherà la partita decisiva. Il centro come mera forza politica farà fatica infatti a risalire la china della sua debolezza degli ultimi venti, trent’anni.

Ma ripensare lo stato e mettere mano alle riforme istituzionali che sono rimaste troppo a lungo nel limbo delle nostre buone intenzioni, ecco, quello invece sarebbe un buon punto di ripartenza. E pazienza se per un po’ faremo a meno del tormentone sul ritorno del “centro che fu”.

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