Dinanzi al parlamentino democratico, Enrico Letta ha parlato di Ius soli. La notizia sarebbe stata se non lo avesse fatto, ma tanto è bastato a far inarcare il sopracciglio al capo della Lega seguito da un buon numero di rimbrotti verso un Pd cocciuto nell’anteporre i diritti civili alla difesa di periferie dove non si combinano pranzo e cena.

L’universalità dei diritti

Stefano Rodotà per anni ha spronato la sinistra a capire l’universalità dei diritti liberandosi dal riflesso di una loro gerarchia. Il senso era che diritti umani, sociali, civili non possono campare separati perché quando accade, e nel mondo accade con frequenza intollerabile, a pagarne il prezzo è la dignità della persona.
Detto ciò, il segretario del Pd ha parlato di parecchio altro. In primis di come adottare nuovi paradigmi in un tempo destinato a mutare passo e volto alla democrazia.

Cambiamento climatico, accessi alle cure, governo dei dati sensibili: l’agenda era nota. Meno scontata forse l’attenzione al ruolo dell’impresa con una partecipazione dei lavoratori agli utili della stessa anche attraverso una distribuzione delle quote azionarie.
Di questo passaggio si è parlato meno, eppure dietro la proposta si affacciano un paio di questioni degne di attenzione.

La prima è su come la pandemia acceleri una svolta radicale per il modello economico e sociale del dopo. Anche in questo caso non partiamo da zero e un esempio aiuta a ricordarlo. L’anno era il 2010 e in un saggio breve (L’economia giusta, Laterza) Edmondo Berselli riassumeva il legame tra incremento della produttività e tutela del reddito nelle stagioni a cavallo del boom. Più o meno per tutto il primo dopoguerra e lungo gli anni Cinquanta aumento di produttività e accesso a consumi di massa avevano gettato le basi di una ricchezza relativamente diffusa.

I problemi nascono quando l’incremento della produzione materiale non basta più a distribuire il reddito necessario, ma poiché la caduta del benessere appena raggiunto avrebbe causato costi politici pesanti si ricorre ad altri strumenti in grado di preservare la domanda aggregata e i livelli di reddito acquisiti.

Inizia così la lunga parabola dell’inflazione. Si stampa moneta per consentire a società abituate a star meglio di non retrocedere come i gamberi, salvo che il gioco si rivela truccato e quando anche quella via pare chiudersi inizia il terzo tempo, quello del debito.
Debito pubblico e privato in una spirale che, in anni vicini a noi, ha teso a svalutare il lavoro, e con esso i salari, rinviando di tappa in tappa il collasso del modello a cui per altro si era giunti un paio d’anni prima che Berselli ne ripercorresse la genesi.

Sempre lo stesso schema

Perché resuscitare eventi tanto distanti? Perché la vicenda italiana si trova per intero racchiusa in questo schema. A certificarlo un dato tra i tanti: nel 2003 ai lavoratori spettava il 48,9 per cento del reddito, trent’anni prima quella percentuale era stata del 59,2. Una regressione nella quota dei redditi da lavoro dipendente che tornava a eguagliare quella del 1951, vale a dire l’Italia prima del boom.

Ancora Berselli commentava quelle tendenze come causa di un bisogno non più rinviabile: dinanzi all’impatto di mercati finanziarizzati e a tutele meno certe per gli stessi garantiti, servivano «sintesi di impressionante potenza intellettuale» mentre la sensazione era di idee «troppo piccole e parziali» se la politica voleva tentare un controllo dei processi in atto.

Ma come comporre individualismo e consumo da un lato, e uguaglianza e diritti dall’altro? Qui entrava in scena il vecchio raffronto tra un capitalismo nordamericano e quello nordalpino.
Il primo volto senza tanti scrupoli al massimo conseguimento del profitto. In altre parole, a quelle latitudini la sfida era valorizzare l’impresa, evitare scalate ostili con una marcata dipendenza dal mercato azionario. Per evitare di finire preda e massimizzare i profitti la soluzione stava in strategie di breve o brevissimo periodo con la rinuncia a politiche di più lungo termine in particolare sul versante degli investimenti nell’ambito della formazione e delle risorse umano.

L’altro modello, il germanico, dell’impresa aveva e ha una concezione diversa. La vive come una comunità dove l’azionista detiene una quota del potere, ma è spinto a dividerne parte col management e il personale. La conseguenza è un modello di economia alla base di processi di crescita più lenti, ma capaci di favorire il consolidarsi di un ceto medio in una relazione meno barbara tra mercato e sistemi di protezione.

L’interesse è nel fatto che questo modello ha mostrato nel tempo una competitività maggiore del primo, anche se la grande crisi del 2008 ne ha intaccato la tenuta. Bene, in questo impianto la presenza attiva degli azionisti principali, a partire dal sistema bancario, trova un bilanciamento in altri “poteri aziendali” compresi i rappresentanti dei dipendenti. Il tutto offrendo chance aggiuntive sulla qualità del prodotto anche in termini di efficienza, spinta innovativa, qualità della vita dei lavoratori.

Nel corso degli anni la ricerca sul capitolo non si è fermata. Per dire, il Forum disuguaglianze e diversità sotto la guida di Fabrizio Barca ha elaborato proposte ispirate a un assunto: «il capitalismo funziona e dà il meglio di sé, cioè produce innovazione, quando è stimolato dalla riduzione delle disuguaglianze». Difficile dire meglio, ma qui interessa lo snodo e su quello le suggestioni non sono mancate. Come nel caso dei Consigli di lavoro e cittadinanza, sedi dove lavoratori, imprese e cittadini di territori investiti dai problemi di una data produzione (Taranto docet) possono individuare forme condivise di indirizzo.

O come la proposta rilanciata da Letta per una partecipazione azionaria dei dipendenti in uno sviluppo di quella funzione sociale dell’impresa cara storicamente a qualche avanguardia più visionaria. Il punto allora dov’è? Il punto critico, intendo. Forse merita coglierne due. Il primo è nel bisogno di sfuggire al riflesso di una società pacificata, depurata dal conflitto tra bisogni non sovrapponibili.

Non appaia una negazione delle premesse sopra descritte, direi che ne fornisce una sorta di telaio in un tempo come il nostro segnato da discriminazioni più acute (in 130 nazioni a oggi non è stata somministrata una sola dose di vaccino). Finché un ordine sociale delle libertà, dei diritti, delle opportunità, non sarà ricostituito, solo una forte rappresentanza di interessi calpestati può stimolare i soggetti “forti” del potere a cederne una quota.

Il nuovo capitalismo

L’ultimo punto riguarda la platea dei destinatari di un nuovo capitalismo. E qui la partita si complica perché nella sfida per nuovi paradigmi culturali e politici, anche la civiltà del lavoro si deve misurare con una limitazione di risorse e opportunità. Chi pagherà questo conto? I singoli costretti a ripiegare su vite di scarto? Perché anche qui, su questo piano, si gioca uno scontro che investe lo stato di diritto (la sentenza sui rider del tribunale di Milano risale a meno di un mese fa) e la qualità della democrazia. Per tutto ciò nessun atteggiamento di sufficienza è consentito verso quel reddito di cittadinanza e, a seguire, di emergenza, che nel caso nostro più che aver colmato un vuoto normativo ha restituito al diritto a «una esistenza libera e dignitosa», primato che da solo l’articolo 36 della Costituzione non basta più a garantire.

Più o meno per questi motivi la discussione dei prossimi mesi dovrà essere meno condizionata dalla cronaca. Allora, benissimo accendere i riflettori sullo ius soli, ma se, assieme a quello, riuscissimo a fissare i parametri per la cittadinanza del dopo, allora avremmo fatto un pezzo di strada e a trarne beneficio non sarebbe la politica solamente, ma quanti oggi di una qualche radicalità hanno più bisogno.

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