«Sta zoccola che ha messo al mondo uno spacciatore di merda». Questo il commento postato pubblicamente da un imprenditore dal profilo noto sotto una fotografia che riprendeva Ilaria Cucchi in un letto d’ospedale. Il trionfo della semplificazione sessista ignorante e becera.

La foto è di Ilaria ma il commento è diretto evidentemente a sua mamma Rita Calore. Lo sfregio taglia la sua maternità, il suo essere donna in quanto madre di Stefano Cucchi, “tossico di merda”. Il profilo appartiene a un imprenditore, dicevo, con tanto di pubblicità e riferimenti alla sua attività. Numeri telefonici. «Ulteriori indagini non sembrano in grado di sortire positivi risultati ai fini dell’identificazione dell’ignoto». Punto. Questo ha saputo dire l’autorità giudiziaria che ha indagato sulla questione. Non si può non registrare il fatto che le espressioni di odio dei cosiddetti haters della famiglia Cucchi prendano di mira esclusivamente le donne Ilaria e Rita, in quanto tali, e che queste forme di violenza verbale vengano quasi “accettate” dalla autorità giudiziaria e non solo quale prezzo da pagare per la loro grande determinazione nel rivendicare verità e giustizia per l’uccisione di Stefano.

È anch’essa una violenza di genere sia pure soltanto verbale ma non meno dolorosa. La cultura del nostro paese non ha ancora fatto veramente suo il tema della violenza sulle donne. Spesso si muove attraverso contrapposizioni generaliste, stereotipi che banalizzano i grandi valori che sono in gioco. Che devono costituire la base della nostra società e caratterizzare l’identità della nostra coscienza civile.

Populismo giudiziario

In un contesto storico dove la semplificazione della comunicazione populista la fa da padrone, si aprono ampi spazi ad una stucchevole contrapposizione dialettica che ci lascia fermi al palo in un percorso di vera presa di coscienza del problema. Tutto ciò diventa particolarmente pericoloso quando ciò deborda nelle aule di tribunali. L’inefficienza della macchina della Giustizia è sotto gli occhi di tutti. Le riforme sono concepite il più delle volte per guadagnare il consenso dei cittadini ottenibile soltanto attraverso una semplificazione che può far solo danni.

I processi sono troppo lunghi? Allora, per evitare la prescrizione si allungano o sospendono i termini. Le intercettazioni vanno troppo speso sui giornali? Allora si limita l’accesso a questo fondamentale mezzo di prova agli avvocati. Come se ne fossero soltanto loro i responsabili, creando inoltre un bavaglio alla libera informazione. Il tutto avendo d’occhio alla “privacy” di coloro che, per mestiere e vocazione, non ne avrebbero proprio diritto trattandosi di politici o pubblici amministratori eletti dai cittadini.

I processi sono materia delicata. Ma non si deve mai dimenticare che sotto processo non vi sono i reati stessi.

In materia di reati sessuali, per esempio, dopo decenni di processi fatti alle vittime, al loro modo di essere, comportarsi e vestirsi, ora una recente sentenza della Suprema Corte di cassazione ha delineato un cosiddetto «statuto dichiarativo della vittima di reati sessuali» riconoscendo come piena prova la deposizione della persona offesa «e, come tale, non necessitante di alcun elemento di riscontro». La sentenza esprime concetti non nuovi e condivisibili nel tentare di risolvere i problemi dei processi di anni passati. Inverte l’onere della prova perché spetta all’imputato dimostrare la propria innocenza. E per questo raccomanda al giudice «spiccata attenzione» ai racconti della persona offesa. Richiede inoltre che vi sia un vaglio «scrupoloso sulla sua credibilità soggettiva e sull’attendibilità del narrato».

Il giudice non è un marziano. È drammaticamente auspicabile che rifugga quelle banalizzazioni, quegli stereotipi dei quali purtroppo ci nutriamo quotidianamente.

Come quello che ritiene che non si debba fare di tutto per perseguire chi ha cosi gravemente offeso la madre e la sorella di Stefano Cucchi perché si parla di Stefano Cucchi e, quindi, di altro. È banale, appunto.

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