L’evocazione di una possibile coalizione tra Pd e Fratelli d’Italia dopo elezioni parlamentari dall’esito indeterminato (un esito favorito dalla totale proporzionalizzazione della legge elettorale) ha avuto l’effetto positivo di certificare in maniera netta, come forse si poteva facilmente intuire, che tale prospettiva è impraticabile.

Pochi giorni dopo, lo strampalato progetto di un viaggio a Mosca di Matteo Salvini, senza una strategia, senza averlo concordato con il governo di cui fa parte, ha fatto discutere sulla tenuta della maggioranza attuale e dalla credibilità del capo della Lega.

Un problema (il secondo) su cui giustamente si interrogano soprattutto i dirigenti del suo partito, i quali sanno di non poterlo sostituire. Per tutti gli altri, alleati di centrodestra compresi, è l’annuncio rassicurante che la tendenza iniziata nell’estate del 2019 (la fuga dei consensi dalla Lega verso FdI, soprattutto, e Fi, in misura minore) continuerà lenta e inesorabile.

Nella stessa intervista in cui ha annunciato il viaggio, Salvini ha però anche ammesso che, dopo le prossime elezioni, varrà nel centrodestra la stessa regola da lui rivendicata nel 2018: il/la leader del partito della coalizione che otterrà più voti sarà candidato/a dalla coalizione alla guida del governo.

In una conversazione con Bruno Vespa tenuta sabato (Forum in masseria, Manduria) Giorgia Meloni ha chiuso il cerchio. Sollecitata a rispondere nuovamente sull’ipotesi del tandem Pd-FdI e sulla concessione di Salvini, ha esposto una versione da manuale de «il bipolarismo come dovrebbe essere».

Una competizione serrata tra coalizioni alternative, tra leader antagonisti che tuttavia si rispettano, in quanto riconoscono la piena legittimità di ciascuno a rappresentare «una parte» del paese (o della Nazione, come preferisce dire), disponibili a convergere su principi fondamentali e interessi nazionali di prima grandezza (come la difesa della sovranità dell’Ucraina contro l’aggressione dell’autocrazia russa o la permanenza a pieno titolo dell’Italia nel novero dell’alleanza atlantica), quindi a votare con la maggioranza su questi temi, pur rimanendo all’opposizione.

Posto che in uno schema bipolare le maggioranze e il premier derivano, di norma, dal risultato elettorale; non sono oggetto di trattative infinite e non sono decise dall’alto.

Se nel Pd ci fosse un minimo di memoria sulle ragioni per le quali il Pd è stato costituito o anche solo una minima capacità di guardare agli interessi di medio termine del Pd stesso, dovrebbe essere considerato lo schema più conveniente.

Ritorno al bipolarismo

Un ritorno alla dinamica bipolare è oggi del tutto plausibile. Se poi finalmente si potesse sviluppare nelle forme di una concorrenza istituzionalmente leale tra coalizioni antagoniste capaci di convergere sui fondamentali della politica estera ancora meglio.

Per promuovere lo schema bipolare ci sono due metodi possibili: estendere la quota dei seggi assegnati in collegi uninominali con formula maggioritaria (a uno o due turni); adottare un sistema proporzionale con premio di maggioranza.

La prima soluzione è astrattamente preferibile ma risulta indigesta ai partiti perché li costringe a scegliere candidati comuni su cui far convergere il voto di tutti i loro elettori, oltre che a negoziare la ripartizione dei collegi sicuri, e perché rischia di consegnare quasi tutta la rappresentanza parlamentare di ciascun territorio ad una parte sola.

La seconda soluzione ha funzionato abbastanza bene nei comuni e nelle regioni in presenza della contestuale elezione diretta del leader di governo. La sciagurata variante concepita per Camera e Senato nel 2005 (Legge Calderoli) fu di fatto abolita dalla Corte Costituzionale.

Questo non toglie che oggi, tenendo in considerazione i rilievi posti allora dalla Corte, non ci si possa riprovare. Ad esempio, con una soglia di sbarramento unica al 4 per cento per tutti e l’assegnazione del premio alla coalizione vincente che abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti, adottando un sistema identico per le due camere, ormai perfettamente gemelle.

Verrebbero meno le preoccupazioni sui collegi uninominali, ogni partito potrebbe fare i suoi giochi nella composizione delle liste.

La coalizione che vince governa, il partito che arriva primo esprime il/la premier. Se poi nessuna coalizione “vince”, amen, si ripiega sul libero gioco parlamentare guidato dal Quirinale.

Conosco le obiezioni: troppo lineare per la politica italiana, troppo tardi per questa legislatura. Di sicuro, questo è l’unico compromesso su cui Pd, M5s, Lega, FI e FdI avrebbe senso aprissero una trattativa.

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