Per trasformare la fabbrica monstre dell’Ilva in un impianto verde dopo Fincantieri firmataria di un memorandum con ArcelorMittal, ora si candidano anche le acciaierie Danieli, assieme al colosso del gas Saipem e alla multinazionale degli elicotteri e delle tecnologie militari, Leonardo. Gianpietro Benedetti, l’amministratore del gruppo Danieli che per primo in Italia ha puntato sui forni elettrici per la produzione dell’acciaio intervistato da La Stampa, spiega: «Con Saipem e Leonardo abbiamo firmato un accordo di collaborazione per la conversione di Taranto. Ma la nostra intesa va oltre, visto che nel mondo ci sono 1,3 miliardi di tonnellate di capacità di acciaio da riconvertire dal carbone alla riduzione diretta».

Ma come è venuto in mente a quegli sprovveduti di Danieli di rivolgersi a Leonardo per un progetto di riconversione verde di un impianto industriale?

Quando Corrado Formigli a Piazza Pulita ha interpellato il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani sulla nostra inchiesta sui possibili conflitti di interessi – Cingolani è ministro della transizione e contemporaneamente un top manager in aspettativa da Leonardo di cui è stato chief technology officer - lui ha risposto tagliando corto: «Leonardo si occupa di digitale, lo ho detto alla giornalista».

Fine della discussione, nessuna obiezione. 

La realtà supera le opinioni

Perché Leonardo, tra le altre cose, possa avere molto a che fare con la transizione ecologica, non lo spiega solo e molto bene il piano Be Tomorrow Leonardo 2030, redatto dall’azienda proprio sotto la direzione tecnologica di Cingolani. E nemmeno i centri di ricerca inaugurati sempre da Cingolani, che si occupano di nuovi materiali per rendere l’industria chimica più sostenibile dal punto di vista ambientale. Né i progetti di  tecnologie satellitari e di monitoraggio del cambiamento climatico che Alenia controllata di Leonardo presenta in pompa magna in questi giorni. 

Lo dice direttamente l’amministratore delegato Benedetti per spiegare perché il loro progetto è adatto a gestire la più difficile transizione italiana, quella della città fabbrica dell’Ilva e delle sue polveri che per anni hanno avvelenato la terra sotto e l’aria sopra.

«Saipem sa gestire e generare gas e idrogeno. Leonardo ha la tecnologia per la gestione intelligente dei processi. Ci sono le competenze, ci sono le capacità e ci sono i soldi. Eccoci qua, siamo pronti», dice l’amministratore delegato di Danieli. E in quel gestire i processi intelligenti è riassunta la spiegazione del perché oggi dire che un’azienda si occupa di digitale non vuole dire assolutamente nulla. O meglio vuole dire tutto. 

Leonardo non si sta solo candidando per diversi progetti che necessitano di una infrastruttura cloud sicura, dal cloud della pubblica amministrazione al fascicolo sanitario, ma si sta anche lanciando nella gestione dei dati dei processi industriali. Uno snodo che definire centrale è un eufemismo, necessario per governare le fabbriche del futuro e per rendere i loro processi ecologicamente meno impattanti. Dopo anni in cui il racconto dell’Internet of things veniva raccontato al pubblico come una faccenda di controllo della temperatura del salotto, in realtà la competizione in questo campo si traduce in chi avrà la sala di controllo dei cicli della produzione industriale. 

Solo per fare un esempio chiaro, grazie alle tecnologie di raccolta, monitoraggio e analisi dei dati, Leonardo sta elaborando progetti sui cicli dei rifiuti delle aziende in ottica di economia circolare. Progetto che potrebbero rientrare benissimo nella voce “progetti faro di economia circolare” del Piano nazionale di ripresa e resilienza. 

Cingolani li conosce benissimo, perché per un certo tempo li ha seguiti lui.

Si dice Recovery, spesso si legge Leonardo

Del resto in un paese come il nostro che soffre anni di abbandono della ricerca e dell’innovazione tecnologica, da una parte, e di mancanza dicentri studi nelle strutture di governo e di riflessione sulle filiere industriali  dall’altra, Leonardo risulta uno dei pochi luoghi di frontiera dell’innovazione, seppure utilizzata soprattutto per tecnologie radar e elicotteri da guerra. Così mentre sullo sfondo si intavolano distinguo su stato innovatore o stato non innovatore, la realtà italiana e i suoi limiti manda il tavolo di discussione a gambe all’aria. E quella vecchia storia dell’apparato militare industriale all’americana base dello sviluppo tecnologico, da noi si traduce nel fatto che l’apparato capace di candidarsi come fornitore delle maggiori svolte tecnologiche promesse nel Recovery plan, transizione ecologica inclusa, sia quello di una multinazionale privata seppure partecipata dal ministero dell’Economia. 

Questa è la realtà, piaccia o non piaccia. Dovrebbe essere chiara a chiunque discuta di Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ma quando Cingolani dice che Leonardo si occupa di digitale e che non ci sono possibilità di conflitti di interessi, scommette nel fatto che non sia affatto chiaro o nella ignoranza del suo interlocutore.

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