Tornano dunque a confrontarsi i sistemi elettorali maggioritario e proporzionale. A farla breve: i sostenitori del maggioritario vogliono certezze, che si abbiano due schieramenti, con una alternativa chiara e la sera delle elezioni si sappia chi ci governerà, senza interminabili pastrocchi e inciuci. Gli altri vorrebbero invece una rappresentanza più aderente alle diverse componenti politiche, anche minori. Nel primo caso, le eventuali alleanze tra gruppi e partiti si fanno prima del voto e si va al confronto, nel secondo caso si fanno dopo e si discute. Chiaro e semplice.

> Ma c’è poco da farla breve, breve non è. Per farsi un’idea bisogna scavare un po’. All'origine del maggioritario, con i due schieramenti che si alternano, è una invenzione britannica: se c'è parlamento c'è bipartitismo, whigs e tories, lo sanno tutti. E quindi nei collegi elettorali, con l'uninominale the winner takes all. Lo chiamano “modello Westminster”.

Il patriottismo costituzionale

> Ora, il maggioritario è un sistema dichiaratamente iniquo perché annulla i voti di chi soccombe, e solo se in un buon numero di collegi vincono gli uni e in altri vincono gli altri, ecco che a livello nazionale si puo' raggiungere un equilibrio. Per tutelate gli interessi di tutti, la governabilità prevale sulla rappresentanza. Dunque bisognerebbe innanzi tutto distinguere: maggioritario in ciascun collegio, o maggioritario complessivamente, nell’intero paese? Ma andiamo al cuore del problema. Nel principio maggioritario la domanda vera è: in un singolo collegio, come nell’intero paese, chi vince puo' rappresentare tutti, anche chi perde, tanto da non tener conto dei suoi voti? La risposta è sì, puo', se esiste una larga convergenza sui valori di fondo, un «patriottismo costituzionale» - nel Regno Unito simboleggiato dalla fedeltà alla Corona, e da valori costituzionali scritti non in una carta ma nella tradizione storica. Allora, a partire da quei valori comuni i due partiti si confrontano sulle politiche, per lo più sulle politiche economiche, sociali, amministrative, e non sui fondamenti del sistema. In sostanza, conta la coesione, l’uniformità del sistema sociale. Se questa non c'è, se la società è attraversata da fratture di fondo (ad esempio tra cattolici e protestanti come in Irlanda, dove infatti non vige il maggioritario), il sistema non puo' funzionare. Un politologo olandese-americano, Arend Lijphart, ne ha fatto una regola: nelle “società plurali”, attraversate da profonde fratture, “il governo maggioritario si rivela non soltanto non democratico, ma anche pericoloso”: le minoranze si sentiranno escluse e discriminate, cosicché “la regola maggioritaria porta alla dittatura della maggioranza e alla guerra civile”. Addirittura!

Ritorno al proporzionale

> Ma com’è successo che nell’Italia repubblicana all’inizio ha dominato il proporzionale, e dopo un ciclo maggioritario, ora si vuole tornare al proporzionale? Vediamo. All'epoca della costituente sicuramente non c'era alcuna omogenietà nazionale. Anche a tacere delle fratture storiche – Nord e Sud, borbonici e sabaudisti, cattolici, democratici, socialisti e comunisti… - l’Italia usciva da una guerra civile. Il dibattito fu dominato dall'imperativo di mantenere l'unità, costasse quel che costasse, in una sorta di instabile surplace. Un obiettivo nobile, virtuoso, che ha salvato il paese. Onore ai costituenti.

> In quella fase dunque il maggioritario proprio non poteva essere adottato. Anche perché – lo tengano presente gli attuali legislatori - il maggioritario ha lo sperato effetto semplificatore e unificante se, come si diceva, fa riferimento a valori comuni: non è di per sé in grado di crearli. Perciò i costituenti adottarono un sistema proporzionale puro, purissimo, esteso anche agli enti locali, facendone un principio quasi-costituzionale (anche se si evitò di scriverlo nella carta). E ogni sia pur leggero scostarsene fu travolto dall'indignazione. Successe quando la DC propose di eleggere a maggioranza i primi giudici costituzionali di nomina parlamentare (un voto proporzionale per gruppi avrebbe ammesso due giudici costituzionali della minoranza, ovvero nientepopodimeno che comunisti). L’ipotesi maggioritaria era “apertamente totalitaria” disse Piero Calamandrei il 28 novembre 1950. Maggioritario = totalitario. Un po' forte, come si vede, ma quello era il clima.

Venne poi la legge elettorale di tipo maggioritario, nel 1953. Successe il finimondo. Legge truffa! Gridò Giancarlo Pajetta. Seguirono una fortissima mobilitazione nel paese, scontri fisici nelle aule parlamentari e sciopero generale. Spezzate le regole della rappresentanza, disse Togliatti, “è distrutta la morale, sono distrutte le basi del vivere civile. Diventiamo animali..”. Proprio così, “diventiamo animali”.

«Malgoverno assembleare»

> Dunque questi erano i segni genetici della Repubblica: damnatio di ogni ipotesi maggioritaria, e rigida aderenza all'ortodossia proporzionalista, che fa delle camere la proiezione pura degli orientamenti politici. Era infatti un parlamentarismo pieno. Ma un sistema parlamentare puro non è efficiente; anzi, sottolineò Giovanni Sartori, equivale al «malgoverno assembleare». La cosa era chiara ai costituenti, che non riuscendo a trovare un accordo su sistemi più efficienti avevano finito col ripiegare sul sistema parlamentare, “da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenza di stabilità dell'azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Dispositivi che tardarono parecchio a venire, e forse non vennero mai, almeno con la coerenza richiesta.

> Niente maggioritario dunque. Secondo Ljipardt alle società frammentate più che il “modello Westminster” si addice piuttosto un modello consociativo, o consensuale: se il primo è “esclusivo, competitivo e avversariale”, il secondo è “caratterizzato da inclusività, negoziazione e compromesso”. E dunque non la legge elettorale maggioritaria, ma il sistema proporzionale, le larghe coalizioni di governo, un equilibrio tra esecutivo e legislativo, il multipartitismo, federalismo e dunque bicameralismo, e così via. Queste sono a suo dire i pregi della migliore “consensus democracy” (che poi è prevalente nei sistemi parlamentari). Così inteso, questo consociativismo puo' dunque avere grandi meriti. E in Italia li ha avuti.

La scoperta della governabilità

> Il sistema italiano era infatti consociativo. Ma il termine “consociativismo” si è subito incanalato nel tumultuoso fiume dell'antipolitica.Vigeva un “bipartitismo imperfetto” immobilizzato da una serie di incontri e confronti, scontri e tramestii parlamentari in una “logica del condominio” (così disse Lelio Basso), un paralizzante “guardarsi faccia a faccia”, un “dirimpettismo” (così Luciano Cafagna) che rinverdiva la pessima fama delle disfunzioni trasformistiche, demonizzate oltre misura come vizio congenito dell'antropologia italiana. Perciò, quando ci si accorse che le originarie “disfunzioni” pesavano troppo – negli anni Settanta si cominciò a parlare di “governabilità” - si ripresero in mano molti utensili prima abbandonati con orrore, il presidenzialismo, l'elezione diretta del capo dello stato o del capo del governo, il superamento del bicameralismo paritario, o per l'appunto il maggioritario.

Quando poi scomparve l’incubo comunista, e quando le iniziative di Berlusconi e di Fini dettero vita a una destra accettabile, possibile attrice di una alternanza senza guerra civile, venne il momento di riprendere l’ipotesi dell’alternanza, e dunque il maggioritario. Cominciò allora la lunga, estenuante, estenuata stagione delle riforme costituzionali. Il proporzionalismo puro parve scomparire, relitto del passato. Un sistema maggioritario a doppio turno fu introdotto nelle elezioni municipali, e funzionò bene e stabilmente, e tutt’ora funziona, a sottolineare il fatto che negli enti locali fronti e fazioni non si scontrano su temi identitari forti e divisivi (la politica estera, ad esempio, le grandi linee della politica fiscale…). Perciò quando Matteo Renzi volle portare il sistema su piano nazionale, parlò di “sindaco d’Italia”.

Il bipolarismo diventò senso comune, ispirò progetti di riforma e leggi elettorali, dove però il maggioritario non potendo funzionare lo si mescolò col proporzionale, con un fritto misto all’italiana che “proporzionalizzò il maggioritario”. Effettivamente la sera delle elezioni si seppe quale coalizione raffazzonata all'uopo aveva vinto, salvo poi a sfasciarsi poco dopo. Poi entrarono in campo terze e quarte forze non più classificabili, si tornò a tessere alleanze e delineare astute consociazioni. E venne il tempo di riproporre il proporzionale puro, come accade oggi, quando una eventuale vittoria della coalizione sovranista in un sistema maggioritario rischierebbe di ripresentare, se non il “totalitarismo” di cui parlava Calamandrei, se non la “guerra civile” di cui parlava Lijphart, una pur sempre minacciosa “dittatura della maggioranza”.

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