«Dottore, scusi se glielo dico, ma la musica che ha di sottofondo in sala d’attesa è un po’ da sottoni. Va bene esserlo, ma non lo dia mai a vedere». In sala d’attesa risuonava Society di Eddie Vedder, tratta dalla colonna sonora di Into the Wild – Nelle terre selvagge, film del 2007 scritto e diretto da Sean Penn, e queste sono le parole con cui Anna, 20 anni, esordisce mentre si siede a gambe incrociate sulla poltrona del mio studio.

A Eddie Vedder, Anna preferisce Ariete giovane cantautrice italiana ora impegnata in un tour che prende il nome dal suo primo album Specchio. Un album fatto di canzoni che sono una finestra aperta non solo su stessa, ma su un’intera generazione di adolescenti e giovani adulti.

Una generazione illusa di guardarsi nell’unico specchio non in grado di riflettere, ma di assorbire e fagocitare emozioni e fragilità contemporanee della cosiddetta Generazione Z: lo specchio non è più lo stagno di Narciso, e nemmeno lo schermo di uno smartphone, bensì ogni sguardo dell’Altro con cui entriamo in relazione.

“Siamo fragili, ma cerchiamo di non darlo a vedere”, canta Ariete in Fragili e profonda è la fragilità che la scorsa settimana ha urlato in un post su Instagram Matilda De Angelis, giovane attrice che ha bruciato le tappe, la più richiesta dalla fiction, dal cinema italiano e che ha recitato in una serie tv internazionale, The undoing.

Bella, piena di talento, ironica e (apparentemente) sicura di sé, Matilda ha voluto mostrare le sue ombre e le sue cicatrici. “Ho iniziato a soffrire d’ansia ormai quasi tre anni fa. La sensazione di stordimento che provoca è difficile da spiegare”.

Tuttavia ci riesce bene, dà voce alla propria vulnerabilità affidandosi ad un lungo post poi cancellato: «Ho sentito per giorni e settimane un macigno sul petto che mi impediva di respirare, la sensazione che tutto intorno a me perdesse di senso, uno svuotamento emotivo feroce».

Pubblica diversi scatti che la ritraggono malinconica. Già lo scorso anno aveva postato delle immagini con il volto segnato dall’acne e che avevano colpito i suoi follower: «Sono diventata molto fiera delle mie cicatrici. Mi ricordano di tutte le volte che ho pianto quando non mi sentivo bella, e di quanto non me ne fotte in realtà un cazzo di essere bella».

Non c’è rosa senza spine, e non c’è vita – anche quella apparentemente più fortunata – immune da una sofferenza psicologica che possa esprimersi attraverso dei sintomi.

Dietro selfie ammiccanti e storie di successo ci sono sempre più persone psichicamente devastate dalla sovraesposizione. Come umani non siamo fatti per sostenere il giudizio della rete sulle nostre vite: nessuno, più o meno influencer, ha la struttura psichica adatta per gestire la gigantesca competizione sui social.

Conta relativamente il numero dei seguaci, e nessuna gratificazione può riempire il vuoto lasciato dall’ansia di essere perennemente in gara con i propri e innumerevoli competitor. La corsa a diventare un brand di successo costringe alla finzione, innanzitutto verso sé stessi. I social e le relazioni quotidiane sono diventate un enorme campo da gioco alla Squid Game, dove fermarsi, rallentare e mostrarsi imperfetti fa perdere punti.

Ancora una volta, purtroppo chi ne sta pagando le maggiori conseguenze sono adolescenti e giovani adulti. Lo so, questa affermazione ormai, da più di due anni a questa parte, sta diventando un cliché, ma l’esperienza della pandemia, l’eco di una guerra tutt’ora in corso alle porte di casa, la preoccupazione per il cambiamento climatico, sono vissuti come un limite angoscioso che obbliga i ragazzi a vivere il presente in maniera perfetta, felice e senza possibilità di fallire.

Essere obbligati alla felicità significa vivere sia nell’ansia, che nell’infelicità. Questa missione, l’obbligo alla felicità e alla perfezione, parte da ben prima dell’adolescenza e già nell’infanzia i bambini sono stimolati in tal senso.

Psicologi e ricercatori che si occupano di infanzia, oltre alle evidenze di ricerca, da tempo pongono l’attenzione su come nei moderni cartoni animati, siano scomparsi i temi malinconici-depressivi che, per esempio, hanno tenuto compagnia alla mia generazione. Lovely Sara, Candy Candy, Heidi, solo per citarne alcuni, con trame dense di angosce, povertà, e fallimenti, hanno ceduto ai mondi felici e rassicuranti di Baby Shark, Bing, o Paw Patrol. Una narrazione che sembra non avere fiducia nelle capacità dei bambini di sviluppare un adattamento emotivo alle emozioni, anche a quelle negative.

Educare i nostri ragazzi all’imperfezione significa esercitarci insieme a loro, perché gli imperfezionisti sanno, come Borges, che «soltanto insieme al disordine la simmetria trova il suo senso».

In altre parole, sanno che “perfetto”, significa “chiuso”, quindi qualcosa che non lascia spazio ai nuovi innesti, mentre è solo legittimandoci all’imperfezione che si vive e si cresce.

© Riproduzione riservata