Dai, la tecnica è geniale. Un paio di mesi fa Matteo Renzi se ne esce accusando il reddito di cittadinanza di alimentare una pessima logica assistenziale e lo fa spiegando che la vera sfida è creare lavoro, non poltrire sul divano. «Io voglio mandare a casa il reddito di cittadinanza perché voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela, se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi», spero che la citazione sia corretta, comunque il senso delle parole era questo. Una stroncatura totale: del principio in sé, della legge che lo ha introdotto, degli esiti generati.

Da lì a pochi giorni in parecchi, anche su questo giornale, hanno reagito, cifre alla mano, illustrando i motivi per cui quel reddito, soprattutto durante la pandemia, ha evitato a migliaia di famiglie di sprofondare in miseria. Sempre i calcoli, in questo caso dell’Inps, hanno anche dimostrato come più della metà dei percettori non sia materialmente occupabile. Un alto numero perché minori o con problemi fisici e di altra natura, e ancora perché disabili, quasi mezzo milione, o pensionati il cui assegno previdenziale non garantisce l’emersione dalla povertà. Parliamo di circa un milione e mezzo di famiglie, il 4,7 per cento della popolazione, per un totale di tre milioni e settecentomila persone.

Ora, sul nodo oggetto di legittima indignazione, parlo dei furbetti o criminali che hanno intascato il reddito, vale – repetita iuvant – la metafora stradale. A uno che passa col rosso lo multi, se recidivo gli togli la patente o che so io, ma non elimini il semaforo.

«L’ho inventato io»

Da mesi gli stessi che si sono presi la briga di illustrare meriti e limiti del provvedimento hanno insistito per apportarvi le correzioni necessarie a partire dalla distinzione tra l’azione di contrasto della povertà e il rafforzamento delle politiche attive del lavoro. Un’esperta come Chiara Saraceno ha spesso dettagliato le modifiche più ragionevoli. Per dire, si tratta di intervenire sulla “scala di equivalenza” che attualmente penalizza le famiglie con figli minorenni. Lo stesso andrebbe fatto per il requisito di residenza in Italia, fissato adesso al tetto dei dieci anni con l’esclusione di moltissimi nuclei familiari per i quali l’accesso al reddito significa né più né meno che riempire il carrello della spesa.

Ora, è piuttosto evidente che di fronte a cifre e problemi complessi e da maneggiare con cura, poiché incidono su carne e dignità degli individui, agitare l’arma referendaria servirà a garantirsi qualche titolo di giornale (sul fatto che aiuti a recuperare voti nutro i miei dubbi), resta che imboccando quel sentiero si pratica un esercizio speculare alla propaganda da destra.

Sul punto ha scritto bene ieri Piero Ignazi: la protezione sociale diventa oggi il discrimine tra gli schieramenti nel senso di definire vicinanza o appartenenza a un campo o all’altro considerando prosciugato il terreno in mezzo.

Ecco perché la vicenda del referendum, cioè la raccolta di firme per indirlo, è un tema interessante al di là delle intenzioni dichiarate. Perché è una cartina di tornasole – o come direbbero i bravi, un posizionamento politico – che tutto sommato prescinde dal merito e si cura d’altro.

Detto ciò, come negare una punta d’ammirazione verso il capo di Italia viva che in questo scorcio di fine estate riprende la parola e rivendicata l’idea della consultazione popolare per abrogare (abrogare!) la norma spiega che solo grazie alla sua iniziativa si metterà mano a una riforma? Affermazione farlocca quanto mai, ma che importa.

Ad azzardare un paragone somiglia un po’ alla gag di Pippo Baudo: «Questo l’ho creato io!». Con la differenza che, da Grillo alla Cuccarini, Pippo i fenomeni li creava per davvero. Qui l’impressione è di un simpatico senatore prossimo a spiegarci d’aver creato, a insaputa del mondo, anche Pippo Baudo.

 

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