L’ops di Mediobanca su Banca Generali, quella di Mps su Mediobanca e quella di Unicredit su Banco Bpm, qualunque ne sia l’esito, stanno progressivamente perdendo la natura di operazioni finanziarie fondate su valutazioni di convenienza economica, per assumere sempre più i contorni di manovre di potere sostenute da un governo che punta a ridefinire gli assetti e le dinamiche del sistema bancario.

Un obiettivo politico apertamente rivendicato, ad esempio, dal responsabile economico di Fratelli d’Italia, Marco Osnato, nel caso dell’ops di Mps, o da Matteo Salvini e dal ministro Giancarlo Giorgetti per quella di Unicredit.

Per capirlo, bastava osservare gli schieramenti che si sarebbero contrapposti nell’assemblea di Mediobanca chiamata a valutare l’offerta su Banca Generali, poi rinviata: da un lato gli investitori esteri; dall’altro, Caltagirone e Delfin – promotori a loro volta di un’ops su Mediobanca, in un’azione chiaramente coordinata con il Mef, al di là di ogni valutazione sull’ipotesi di concerto – cui si sono aggiunte tre Casse previdenziali, sottoposte alla vigilanza dello stesso Mef e del ministero del Lavoro.

Banca Generali

Il favore del mercato per l’offerta di Mediobanca su Banca Generali è facilmente comprensibile: Banca Generali è attiva nel private banking rivolto a una clientela facoltosa, spesso composta da quell’imprenditoria italiana che rappresenta il core business di Mediobanca, con potenziali sinergie future rilevanti.

Banca Generali presenta già una redditività elevata: il risultato operativo atteso per il 2025, pari al 64 per cento dei ricavi, supera la media del 55 per cento dei principali concorrenti — Mediolanum, Anima e Azimut — ed è valorizzata in Borsa 3,9 volte il proprio patrimonio, contro una media settoriale di 1,9 volte.

L’acquisizione genererebbe quindi valore per Mediobanca, anche perché le attività di Banca Generali garantirebbero una redditività superiore a quella della partecipazione in Generali, destinata a finanziare l’operazione.

Un’operazione vantaggiosa

È difficile immaginare perché un investitore razionale in Mediobanca dovrebbe respingere un’operazione capace di aumentare il valore del proprio investimento. La critica secondo cui l’ops su Banca Generali sarebbe una mossa difensiva del management è probabilmente fondata, ma del tutto irrilevante: a un investitore razionale interessa unicamente se l’operazione crea valore, indipendentemente dalle motivazioni che la ispirano.

Ed è proprio qui che risiede il problema per Caltagirone e i suoi alleati: l’acquisizione di Banca Generali aumenterebbe significativamente il valore di Mediobanca, rendendo il loro tentativo di scalata tramite Mps praticamente irrealizzabile, anche alla luce dello sconto a cui già oggi la banca senese tratta in Borsa rispetto a Mediobanca. Inoltre, la cessione della partecipazione in Generali li priverebbe di uno degli obiettivi principali della loro offensiva.

Un’ops che sarebbe vantaggiosa anche per Generali: Banca Generali rappresenta infatti una rete di distribuzione di prodotti finanziari non strategica per il gruppo assicurativo, che dispone già una solida capacità di raccolta interna.

L’obiettivo di Generali è piuttosto quello di rafforzare la propria capacità di gestione degli attivi, come sembrerebbe indicare la recente joint venture con Natixis. In cambio della cessione, Generali riceverebbe azioni proprie da utilizzare per future acquisizioni, evitando aumenti di capitale. Tuttavia, anche all’interno di Generali, Caltagirone e i suoi alleati si oppongono alla vendita di Banca Generali, per le stesse ragioni per cui contrastano l’ops di Mediobanca.

Logiche di potere

Anche se Caltagirone e i suoi alleati riuscissero a scalare Mediobanca, non si potrebbe certo dire che abbiano prevalso le logiche di mercato. Con il dichiarato sostegno del governo, sono infatti parte attiva in due ops che coinvolgono tre società di cui sono contemporaneamente azionisti. In un intreccio così fitto di interessi, è inevitabile che la logica finanziaria finisca per essere subordinata a quella del potere.

L’azione del governo non si limita alla ridefinizione del controllo di Mediobanca e Generali, ma si è spinta fino all’esercizio del golden power — in contrasto con le regole europee sulla concorrenza — per bloccare l’offerta di Unicredit su Bpm. Un’operazione che avrebbe ostacolato la creazione di un “terzo polo” bancario, insieme a Mps (e Anima), una volta conquistate Mediobanca e, di riflesso, anche Generali.

Per il governo, si tratterebbe del coronamento di un disegno più ampio che, dopo lo scorporo della rete di Tim e l’ingresso di Poste nelle telecomunicazioni, punta a ridisegnare la mappa del potere economico anche nel settore bancario.

Un progetto talmente strategico che il ministro dell’Economia, Giorgetti — nonostante le tariffe imposte da Donald Trump, il ritorno alla crescita zero virgola, le guerre in corso, i ritardi del Pnrr e la necessità di reperire risorse per ambiente, energia e difesa — ha minacciato le dimissioni nel momento in cui si è profilata la possibilità di un allentamento dei vincoli del golden power su Unicredit.

Ritorno al passato

Sembra di essere tornati ai tempi del celebre «abbiamo una banca» di Piero Fassino e del tentativo di scalata a Bnl, con Caltagirone già allora protagonista — anche se oggi pochi lo ricordano. Era l’epoca in cui Mps era ancora gestita dalla politica. Allora era la sinistra. L’ironia è che oggi è la destra a ripercorrerne le orme: la sete di potere non ha colore politico.

Non so chi alla fine controllerà Mediobanca, Bpm o Generali. Ma il danno più grave è già stato fatto: è la credibilità internazionale del nostro mercato dei capitali a uscirne compromessa. Un danno profondo, perché non c’è crescita senza un mercato efficiente, trasparente e aperto ai capitali esteri.

Il governo e Caltagirone forse potranno presto dire di “avere una banca”. Ma per il nostro mercato, la campana ha già cominciato a suonare.

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