In questo semestre bianco ogni mossa politica è posizionamento in vista dell’elezione del capo dello Stato a inizio 2022. Sergio Mattarella ha detto di non voler proseguire, scelta saggia perché non si può legare ulteriormente l’elezione di una figura di garanzia alle esigenze contingenti del ciclo politico.

Il nome di Mario Draghi sarebbe quello più ovvio per la successione, per molte ragioni: per il prestigio indiscusso, in Italia e fuori, ma anche perché alle prossime elezioni politiche (2022 o 2023) si prospetta la vittoria di una coalizione di centrodestra ancora intrisa di sovranismo e sbandate per gli autocrati, oltre che con una venatura no-vax assai pericolosa di questi tempi.

Con questa gente al governo e in maggioranza, avere Draghi al Quirinale servirebbe a garantire la credibilità dell’Italia nella fase cruciale dell’attuazione del Pnrr: perfino Giorgia Meloni lo ha capito e non perde occasioni per attestati di stima e porte aperte, Matteo Salvini ha più volte indicato il nome di Draghi, Silvio Berlusconi dopo averlo portato alla guida della Banca d’Italia (2005) della Bce (2011) non chiederebbe di meglio che intestarsi l’elezione di uno che non lo ha mai umiliato o rinnegato, neppure nei momenti più bassi della parabola dell’ex Cavaliere.

Certo, Draghi dovrebbe lasciare palazzo Chigi: come ha giustamente osservato su Domani Gianfranco Pasquino, tocca a lui definire il contesto, chiarire se Pnrr, riforme e campagna vaccinale sono in sicurezza o se invece la sua presenza rimane indispensabile. Dal lato del Pd, molti continuano a ritenere Draghi un premier irrinunciabile. Non tanto per i risultati, ma perché più resta a palazzo Chigi più si allontanano elezioni che saranno traumatiche: meno parlamentari, meno voti, troppe correnti per spartire i pochi posti rimasti, un congresso inevitabile, prima per le candidature o dopo per i regolamenti di conti.

Come alternativa alla conferma di Mattarella (ma davvero si può chiedere a un presidente della Repubblica di restare per paura delle elezioni?), circola ora un’ipotesi alternativa: votare al Colle Pier Ferdinando Casini, una infinita carriera soprattutto nel centrodestra di Berlusconi prima dell’ultimo trasformismo con l’elezione in quota Pd, per tenere Draghi il più possibile, magari anche dopo il 2023, forse perfino indicandolo come candidato premier alle elezioni in nome di una “agenda Draghi” da completare.

Solo chi non conosce Draghi può pensare che il premier si presti a simili giochini. Ma non stupisce il cinismo dei dirigenti Pd che, dopo aver scambiato conte per il “faro dei progressisti”, ora si buttano sul premier per la totale incapacità di produrre una leadership credibile al proprio interno. Questo cinismo rapace, da alcuni ancora scambiato per raffinatissima intelligenza politica, è ormai tutto ciò che resta dell’identità di un partito che ha fallito anche nel tentativo di Enrico Letta di spostarsi dal riformismo pragmatico alle battaglie valoriali. Oltre gli slogan su Ius soli e legge Zan, i risultati concreti sommano a zero. E questa fragilità rende ogni ambizione di decidere la partita del Quirinale assai velleitaria.  

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