Le autorità cinesi stanno adottato misure drastiche per limitare e regolamentare il potere dei colossi della tecnologia e di tanti altri settori. Più che una politica antitrust, è un piano del Comitato Centrale del Partito Comunista per ridefinire il rapporto tra stato e settore privato, e incidere sulla struttura socio economica del Paese. Come ha dichiarato lo stesso Comitato, il piano al fine di «soddisfare la crescente domanda di una buona qualità della vita», vuole costruire una nuova governance del paese basata su «una visione a lungo termine», per «promuovere una governance fondata sulle regole del diritto a un nuovo livello in una nuove era».

Sarebbero obiettivi condivisibili se leggi e regole non fossero stabilite dall’organo supremo del Partito Comunista, ma da un parlamento e un governo democraticamente eletti; se lo stato di diritto fosse garantito da una magistratura indipendente, e non asservita al Partito; e se si lasciasse agli individui la libertà di decidere la qualità della vita che desiderano. Forse ci eravamo dimenticati che la Cina è un paese comunista.

Il secolo cinese

La svolta ha conseguenze tanto durevoli quanto incerte. La strategia cinese per chiudere rapidamente il gap con l’occidente è stata quella integrare la sua economia con quelle dei paesi sviluppati, per emularli, copiarli, e appropriarsi di conoscenze e tecnologia.

Nel 2000, la Cina apre all’integrazione nel commercio internazionale, entrando nel World Trade Organization. In questo modo attira le imprese occidentali, allettate dall’enorme platea di consumatori cinesi e da una forza di lavoro qualificata e a basso costo. L’accesso è però vincolato alla costituzione di joint venture con capitale cinese, in modo da appropriarsi rapidamente tecnologia e know how occidentale, senza pagare o rispettare i diritti di proprietà intellettuale.

Nel 2016 la Cina ottiene che il renminbi entri a far parte del paniere degli Special Drawing Rights del Fondo Monetario, insieme a dollaro, euro, yen e sterlina. E per promuoverne l’utilizzo internazionale lancia un massiccio programma di finanziamenti ai paesi africani e sudamericani per la costruzione delle infrastrutture necessarie alla Cina per approvvigionarsi di materie prime e movimentare le proprie merci: 462 miliardi tra il 2008 e 2019, più della World Bank. Ma a condizioni molto diverse: i prestiti cinesi non rientrano nelle ristrutturazioni collettive dei debiti sovrani in caso di dissesto; sono regolati dalla legge cinese; hanno l’infrastruttura in garanzia; e clausole di rimborso che danno alla Cina un notevole potere di influenza sul paese debitore. Di fatto una politica neo-colonialista.

Infine, l’integrazione col mercato finanziario americano. Dalla prima quotazione a Wall Street di Alibaba, colosso dell’e-commerce, nel 2014, ci sono state ben 769 quotazioni (più di 100 l’anno) di società cinesi negli Stati Uniti e a Hong Kong, sfruttando la garanzia che lo stato di diritto e l’autonomia dell’ex colonia britannica offrivano agli investitori.

Per chiudere il gap tecnologico con gli Usa, la Cina ne ha copiato il modello: si è avvantaggiata dei capitali americani e mobilitato i propri imprenditori con la prospettiva della ricchezza personale, oltre ad offrirgli il sostegno dello Stato che ha impedito la concorrenza delle società americane in Cina e concesso una tassazione da paradiso fiscale (10 per cento).

La retromarcia degli anni Venti

Se la quotazione di Alibaba ha segnato l’inizio della strategia cinese, l’improvviso stop imposto nel novembre scorso alla quotazione di Ant, suo braccio finanziario, potrebbe segnare l’inizio della nuova. Lo stop e la multa da 2,8 miliardi ad Alibaba sono stati motivati da ragioni di antitrust.

Ma forse contano di più le critiche aperte ai regolatori cinesi del suo fondatore Jack Ma (misteriosamente sparito dalla circolazione per mesi) e la creazione di una valuta digitale privata da parte di Ant (e del concorrente WeChat) che si stima copra 80 per cento delle transazioni private, a discapito di un sistema bancario prevalentemente pubblico.

Subito dopo, infatti, la Cina ha lanciato la propria criptovaluta, a cui privati e banche debbono collaborare, dando al governo il controllo e conoscenza piena su tutti i pagamenti dei cittadini cinesi. L’uso di tutte le altre criptovalute, come Bitcoin, sono state di fatto bandite.

Misure “antitrust” hanno colpito altri grandi gruppi tecnologici: Tenecent, i cui videogiochi sono “oppio per la mente”; le piattaforme streaming e social di Netease e Kuashou, perché creano “cattiva cultura per i giovani”; ByteDance (Tik Tok) la cui quotazione è stata bloccata; e ancora Didi (Uber cinese), JD.com e Pinduodo (e-commerce), o Baidu (Google cinese).

Emblematico il caso di Maituan, food delivery, multata per 1 miliardo di dollari, che si aggiunge ai 2 che il suo proprietario ha dovuto elargire per scopi sociali, forse a causa di un post in cui ricordava che la dinastia Qin, nel 200 a.c., aveva fatto bruciare i libri e chiudere le scuole filosofiche, nel momento in cui le società (quotate) che forniscono l’istruzione privata sono state di fatto chiuse e nazionalizzate.

Ai produttori di semiconduttori è stato imposto di abbassare i prezzi per aiutare le industrie strategiche. Uno scandalo sessuale è stato il pretesto per richiedere la riduzione del consumo di alcol, penalizzando i produttori di liquori e il settore del tempo libero. Regole, restrizioni e multe anche per sigarette elettroniche, gioco d’azzardo e la pubblicità online.

Mercato finanziario, istituzioni e autonomia di Hong Kong sono stati riportati brutalmente sotto il controllo politico cinese.  Si ritiene che presto le “misure antitrust” colpiranno anche settori come sanità, alimentare e immobiliare. E se multe e regole non bastano, c’è sempre il deterrente delle punizioni: per il dissesto di Huarong, la società per la gestione dei crediti deteriorati, il suo presidente è stato giustiziato.

È chiara la volontà di ristabilire il primato del Partito sul sistema imprenditoriale e il controllo sulla società cinese che l’integrazione col mondo occidentale rischiava di minare. Le regole antitrust, infatti, non valgono per le imprese in settori come le comunicazioni, con il duopolio di Huawei e Zte, che rivestono anche un’importanza militare e per questo sono avversate dagli Stati Uniti. E il blocco alle quotazioni non vale per Xpeng e Liauto, nuovi produttori di vetture elettriche, strategiche per il Partito, che l’anno scorso hanno raccolto 46 miliardi sul mercato.

Perché ora 

Siamo dunque a una svolta rispetto al modello di crescita basato su integrazione ed emulazione dell’occidente. Ma perché? E perché ora? Secondo un’analisi condivisibile, il comunismo cinese ha sempre visto capitalismo e integrazione come una parentesi necessaria ad accelerare la crescita, ma ritiene che alla lunga il dirigismo produca più benessere sociale.

La parentesi si chiude ora perché la Cina considera le crisi dal 2008 a oggi la dimostrazione del declino irreversibile di un Occidente che non ha più nulla da insegnarle. Crede che il futuro sia a Est e vuole dunque proiettare l’influenza politica, militare ed economica della Cina sull’Asia, ma anche sull’Africa, Sud America e, con la Via della seta, sull’Europa.

Questo imporrebbe una scelta di campo e una strategia unitaria europea che per ora non si vede. Spero non prevalga chi da noi guarda con malcelata ammirazione alla Cina che, a differenza dell’Europa, ha saputo creare i propri colossi tecnologici proibendo l’accesso degli americani al proprio mercato, e che ora, a differenza degli Stati Uniti, è in grado di regolamentarli rapidamente. Il mito del dittatore benevolente è duro a morire.

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