Oberata da un debito pubblico costoso, l’Italia ha leve limitate per espandere la spesa militare: o il governo delude Trump o si mette contro l’opinione pubblica, già sfasata e indirizzata verso il pacifismo
Perdita di potenza. La diminuzione dello status sul piano internazionale è il rischio che correrà l’Italia nei prossimi anni sommando l’impatto delle politiche di Donald Trump, la struttura economica del nostro paese e gli orientamenti della politica e dell’opinione pubblica. Andiamo con ordine. I dazi americani rischiano di rallentare l’economia europea e di colpire in particolare modo i paesi più dediti all’export. In questo caso l’Italia è in cima alla lista.
La risposta al protezionismo potrebbe essere una crescita degli stimoli pubblici per il mercato interno, ma se questa iniziativa non arriverà da Bruxelles, con fondi e debito comune, l’Italia avrà poco spazio di manovra viste le ristrettezze del bilancio. Dunque, la «potenza esportatrice» rischia di essere danneggiata e di non riuscire a costruire un modello economico alternativo.
I dati della produzione industriale sono già un grosso campanello d’allarme. Inoltre, la politica americana mira a riportare sul proprio suolo lavoro e industria manifatturiera. Ciò comporta una riduzione degli investimenti internazionali in paesi come l’Italia, dove costi del lavoro e soprattutto dell’energia sono molto elevati.
In secondo luogo, c’è la spesa per la difesa. E qui gli aspetti spinosi si moltiplicano. L’Unione Europea per ora ha trovato la quadra sullo scorporo di tali investimenti dalla regola del debito e sull’accensione di una linea di prestiti, ma tutto avviene nell’ottica degli Stati nazionali.
Le difficoltà italiane
Di qui la difficoltà dell’Italia, espressa dalla freddezza del ministro Giorgetti sulla soluzione proposta da von der Leyen, che è oberata da un debito pubblico grande e costoso, dunque ha una leva limitata per espandere la spesa militare.
Questo scenario si porta dietro dei problemi politici. Il primo è che l’Italia ha promesso agli Stati Uniti, oltre che al resto d’Europa, che avrebbe aumentato la spesa militare ma con uno spazio in bilancio limitato dal debito, il governo ha due strade davanti a sé: mantenere la promessa investendo in difesa, arrivando al 2,5 per cento del Pil e tagliando altrove la spesa, col rischio di scontentare gli elettori e offrire argomenti all’opposizione; oppure smentire la promessa, varare un aumento impercettibile della spesa in difesa, preservare gli altri impegni di bilancio, ma col problema di dover fronteggiare la delusione di Trump.
Su questo punto l’orientamento degli italiani non aiuta Meloni. L’Italia è, come mostrano tutti i sondaggi sul tema, uno dei paesi europei con l’opinione pubblica più scettica rispetto alla difesa. Sul riarmo e il proseguimento del sostegno militare all’Ucraina, Meloni già governa contro la maggioranza del paese.
C’è uno sfasamento nell’opinione pubblica: mentre nei sondaggi politici i partiti di centrodestra sono ancora forti, allo stesso livello delle elezioni europee, in quelli specifici su difesa e politica estera l’opinione pubblica è più frammentata e orientata al pacifismo.
La premier ne è consapevole, per questo frena sull’eventuale impegno di truppe e sembra in affanno nel seguire le posizioni politiche di Francia e Inghilterra che sono potenze nucleari e hanno popolazioni più inclini al riarmo.
Tutto questo si riflette anche sugli equilibri parlamentari. La Lega ha una linea non solo di appeasement con la Russia come ben noto, ma oramai ha assunto anche una posizione anti-riarmo, dimostrando di esprimere un «trumpismo di facciata», in quanto la Casa Bianca brama il riarmo europeo mentre la Lega lo ostacola.
Effetto Trump
Ma Meloni è incalzata anche dall’opposizione che con Movimento 5 Stelle e AVS presidia il fronte pacifista. La fotografia, dunque, è quella di una maggiore debolezza politica nonostante gli ottimi rapporti con Trump.
Anzi proprio gli effetti della politica di Trump, e questo è uno dei problemi che Meloni dovrebbe segnalare alla Casa Bianca, potrebbero spingere la classe politica italiana a guardare in lidi più lontani e pericolosi, come il ravvivare i rapporti con Cina e Russia.
D’altronde l’anti-americanismo in Italia è stata una manifestazione politica trasversale e non secondaria nella storia della Repubblica, che ha parteggiato per il disimpegno militare e l’allentamento del rapporto atlantico.
Troppo pessimismo? Può essere, in fin dei conti la Casa Bianca è ancora vaga sui dazi verso l’UE e molti prodotti italiani potrebbero esserne esclusi; le istituzioni europee sono ancora in fase di discussione dei programmi sulla difesa e l’Italia può cercare di negoziare una soluzione più sostenibile per le nostre finanze; la nuova politica economica tedesca può fornire impulsi tali da avvantaggiare anche il sistema industriale italiano.
Tuttavia, è sempre bene prepararsi al peggio. E rendersi conto che il mondo del 2022, quando il governo si è insediato, è finito all’inizio del 2025. Questa è una fase completamente nuova, dove le debolezze strutturali dei paesi pesano di più, le opinioni pubbliche diventano più inquiete, gli ostacoli si moltiplicano.
Il rischio di una perdita di status internazionale, da media potenza euro-atlantica a paese sempre meno rilevante sul piano sistemico e conteso da diverse potenze straniere, è da mettere in conto. Per chi ha fatto della forza della “patria” e dello “interesse nazionale” un vessillo, lo scenario può trasformarsi in un incubo politico.
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