Minacce russe e disimpegno Usa. All’Ue serve un deterrente nucleare

Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sono (ri)emersi dubbi sulla volontà del presidente di mantenere (e rispettare) gli impegni sanciti dal trattato Nato, in particolare dal suo articolo 5. E gli eventi degli ultimi giorni – con l’escalation di provocazioni militari da parte di Mosca nei cieli europei – hanno reso la questione più urgente che mai. I dubbi sono stati ancor più rafforzati dalla prospettiva di un parziale disimpegno militare degli Stati Uniti dall’Europa: una riduzione consistente e rapida delle forze e delle capacità americane e il loro ridispiegamento in altri teatri (o per la sicurezza interna) metterebbe infatti gli europei in una situazione piuttosto critica. Ma mentre un ridimensionamento quantitativo delle truppe americane sarebbe gestibile, se attuato in modo coordinato con gli alleati, l’ombrello nucleare Usa appare invece quasi insostituibile, soprattutto alla luce delle ricorrenti minacce del Cremlino. Droni avvistati sugli aeroporti di Copenaghen e Oslo, scali chiusi per ore. Fredriksen: «Non possiamo escludere un coinvolgimento russo» Potenze e posture La pratica della deterrenza ‘estesa’ adottata da Washington dall’inizio della Guerra Fredda implicava, al di là della sua evoluzione dottrinale nel tempo, l’impegno a dissuadere e a intervenire in difesa degli alleati e dei partner in tutti i potenziali scenari, nucleari e non. All’interno della Nato, ciò è stato accompagnato fin dagli anni Sessanta dalla pratica della condivisione (nuclear sharing): Washington ha dispiegato un numero limitato di testate in alcune località dell’area euro atlantica – sulla base di accordi negoziati con il paese ospitante (nuclear hosting) – mantenendo però pieno controllo su di esse, in linea con le disposizioni del trattato di non proliferazione (Npt). Mentre gli equipaggi responsabili per gli aerei ‘a doppia capacità’ includono anche altri alleati, il loro possibile impiego richiede l’autorizzazione della Casa Bianca. Senza essere mai stati collegati all’articolo 5, questa pratica e questi accordi hanno rappresentato la pietra angolare della deterrenza e della difesa collettiva dell’Alleanza e, come tali, anche una fonte ricorrente di ansia tra gli alleati europei riguardo all’effettiva disponibilità di Washington a scatenare l’Armageddon nucleare e mettere a rischio la propria ‘homeland’ in America per proteggere l’Europa. Come affermò una volta Denis Healey, il più longevo ministro della Difesa britannico (1964-70), «per dissuadere i russi basta il 5 per cento di credibilità della ritorsione americana, ma per rassicurare gli europei serve almeno il 95 per cento». Questo è anche il motivo per cui la retorica sfuggente di Trump sull’articolo 5 e il suo disprezzo per i «parassiti» della Nato hanno allarmato molti europei, soprattutto da quando Mosca ha inasprito la sua dottrina nucleare – abbassando la soglia per ricorrere al proprio arsenale – e persino schierato testate nucleari in Bielorussia. Kiev, la prova di forza di Putin: il nucleare tattico non è più tabù Anche le capacità nucleari britanniche sono a disposizione dell’Alleanza, sebbene non siano dispiegate all’estero. Dalla fine della Guerra Fredda, Londra ha limitato i propri sistemi di lancio ai soli sottomarini e, anche se il suo deterrente nucleare rimane «operativamente indipendente», ha aumentato la sua dipendenza complessiva da Washington (a partire dai missili balistici Trident che vengono costruiti, testati e mantenuti oltreoceano). Nel novembre 2024, subito dopo la (ri)elezione di Trump, il presidente uscente Joe Biden e il primo ministro Keir Starmer hanno prorogato a tempo indeterminato il loro accordo bilaterale di difesa reciproca – firmato nel 1958 e rinnovato ogni cinque o dieci anni – in base al quale l’America condivide la sua tecnologia e le sue infrastrutture nucleari con la Gran Bretagna. Per parte sua, la Francia ha adottato fin dall’inizio la dottrina (e la pratica) della deterrenza minima, basata sul concetto di “stretta sufficienza” e volta a scoraggiare qualsiasi aggressore rendendo inaccettabilmente alto il costo di un primo attacco grazie alla sua capacità di ritorsione. Di portata puramente difensiva e a lungo fondata sulla cosiddetta ‘triade’ di sistemi di lancio (terrestri, aerei e marittimi), la force de frappe di Parigi comprende attualmente sia sottomarini – almeno uno dei quali si muove sempre in acque profonde per garantire la cosiddetta ‘second strike capability’ – sia caccia Rafale ‘a doppia capacità’. Tuttavia, non è mai stata assegnata alla Nato – la Francia non partecipa neppure al suo Gruppo di pianificazione nucleare (Npg) – e rimane sotto l’autorità esclusiva del presidente della Repubblica. Jet russi sull’Estonia: Putin provoca Nato e Ue. E al Cremlino iniziano le defezioni Evoluzioni e divisioni Negli ultimi decenni, tuttavia, i presidenti che si sono succeduti all’Eliseo – a cominciare da Jacques Chirac, che nel 1995 aveva avviato la cooperazione nucleare con la Gran Bretagna e aveva poi perfino proposto alla Germania una qualche forma di dissuasion concertée – hanno menzionato la possibilità di dispiegare il proprio ombrello nucleare per proteggere partner e alleati, sostenendo che un attacco contro di loro avrebbe leso anche gli «interessi vitali» della Francia. Il linguaggio utilizzato per descrivere questa «dimensione europea» della force de frappe è sempre stato molto cauto, anche dopo il famoso discorso pronunciato da Emmanuel Macron all’Ecole de Guerre nel febbraio 2020: ciò è in parte dovuto a ragioni di politica interna (il consenso gollista è che “le nucléaire ne se partage pas”), ma in parte anche perché nelle questioni di natura strategica un certo grado di ambiguità è spesso parte essenziale della comunicazione (la deterrenza funziona innanzitutto nella testa e nella percezione del potenziale aggressore). Nel 2022, tuttavia, un aereo cisterna italiano ha partecipato per la prima volta a un’esercitazione nucleare francese, e nel marzo 2025 Parigi ha ospitato gli ambasciatori della Nato alla base aerea di Istres, presso Marsiglia, per far loro conoscere meglio il dispositivo francese. Alcuni analisti sostengono che un maggior numero di esercitazioni e addestramenti congiunti e una partecipazione della Francia (in qualità di osservatore) alle riunioni del Npg e dei suoi organi subordinati potrebbero contribuire a rafforzare la fiducia reciproca, inviando al contempo anche un segnale a Mosca. «Un patto sulle atomiche»: Putin blandisce Trump anche sulle armi nucleari Alla fine di giugno 2025, in concomitanza con il vertice Nato all’Aia, il governo britannico ha reso pubblico un piano per l’acquisto di una squadra di caccia F-35 a doppia capacità per integrare le missioni nucleari dell’Alleanza, e il presidente francese ha annunciato che presto sarà riaperta una quarta base vicino al confine con la Germania. E sempre nel luglio scorso, con la cosiddetta Dichiarazione di Northwood, Londra e Parigi si sono anche impegnate per la prima volta a coordinare l’uso delle loro armi nucleari e a rispondere congiuntamente per difendere l’Europa in caso di una «minaccia estrema», fornendo così un ulteriore livello di protezione oltre alle garanzie di difesa collettiva della Nato. Anche se considerati congiuntamente, tuttavia, gli attuali arsenali nucleari britannico e francese non sono neppure lontanamente paragonabili a quelli di Stati Uniti e Russia, e sono già eguagliati (e presto superati) da quello della Cina. In altre parole, non potrebbero sostituire l’ombrello americano, anche se possono condizionare i calcoli di qualsiasi potenziale aggressore. Questo può aiutare a capire perché la Germania abbia recentemente proposto Parigi e Londra possibili forme di consultazione e coordinamento (come il cofinanziamento dei loro programmi da parte di Berlino), e perché la Polonia abbia apertamente avanzato l’idea di ospitare testate nucleari (comprese quelle francesi). Perché il nucleare non è più un deterrente Tra i membri dell’Ue, tuttavia, non esiste ancora una posizione comune sulla questione – a parte il rigoroso rispetto del Npt (che implica che nessuno possa acquisire armi nucleari ex novo) – e le attitudini variano notevolmente fra i 27, passando dallo status attuale della Francia (dopo Brexit) come unica potenza nucleare, ai paesi che ospitano testate nucleari (Germania, Italia, Belgio e Olanda), fino all’Austria e all’Irlanda, che figurano tra i 94 firmatari del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari che vieta lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio, l’uso e la minaccia di uso di armi nucleari. In un mondo in cui gli accordi di controllo degli armamenti strategici sono ormai quasi inesistenti – l’ultimo ancora in vigore, il New Start, scadrà l’anno prossimo – e il possesso (o meno) di armi nucleari sta diventando un indicatore importante di vulnerabilità alla coercizione esterna e persino all’aggressione – come dimostrano i casi, fra loro diversissimi, della Corea del Nord, dell’Iran e della stessa Ucraina – gli europei potrebbero davvero dover riconsiderare le loro posizioni.