Le elezioni avranno due grandi temi: assetto istituzionale della Ue e conti pubblici. Si sceglierà fra politiche di destra e di sinistra, e se far avanzare l’Unione europea perché affronti le sue sfide, o bloccarla per rinchiuderci in tante piccole patrie.

Siamo fra i sei firmatari del Trattato di Roma (1957), da cui nasce l’attuale Ue. Da allora la Repubblica nata dalla Resistenza ha sostenuto i progressi sulla strada dell’Unione «sempre più stretta» voluta dal Trattato, pur mancando alcune scadenze.

Non a caso le tre parti della destra, ostili alla Costituzione perché a essa estranei, vogliono la Repubblica presidenziale; non per coerente visione istituzionale, ma per attrazione ideologica verso la concentrazione dei poteri, da cui la saggia democrazia rifugge. Con due terzi dei seggi potrebbero provarci davvero.

Una destra nemica dello stato

Giorgia Meloni, candidata premier della destra, ha presentato nel 2018 una proposta di revisione costituzionale che cancella ogni riferimento alla Ue. Come ha scritto Giulia Merlo, essa assoggetterebbe il diritto della Ue a quello nazionale, causando contenziosi continui con la Ue e bloccandone le politiche comuni. Diremmo addio al Pnrr, non approvato infatti dal partito di Meloni. Salterebbe anche il richiamo all’ordinamento Ue su sostenibilità del debito e conti pubblici (art. 97).

Le proposte della destra li devasterebbero. Infatti rilanciano, restando vaghi sui dettagli, la regressiva tassa piatta, premi ai ricchi, niente ai poveri. C’è una lunga lista di benefici, cui corrispondono costi per lo stato; nelle otto pagine dell’accordo di programma. La destra non solo tace sulla copertura della spesa, ma nemmeno cita il bisogno di trovarla. Spiccano pochi, ma significativi, cenni alla riduzione delle tasse e alla «pace fiscale»; s'intende la resa del fisco.

Ovunque la destra sta mutando da paladina dello stato a sua nemica, a vantaggio dell'individuo, ma noi abbiamo precorso i tempi; dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi essa rappresenta gli evasori. Promette alle regioni ordinarie un’autonomia differenziata che scasserebbe il nostro assetto, muovendo in direzione opposta a quella necessaria.

La destra chiede anche più federalismo fiscale ma non, ovviamente, quello vero, che richiederebbe imposte locali su tutti gli immobili. Anatema per chi non metterà mai «le mani in tasca agli italiani»! Si promette lotta alla «concorrenza sleale», ma s’intende alla concorrenza e basta. Di qui la tutela delle «imprese balneari: 8.000 km di litorale, 300.000 addetti», ma perché il silenzio sui negletti tassisti?

Il programma ha il merito di chiarire a tutti perché la destra ha fermato il lavoro di Mario Draghi, grazie all’insipienza dei Cinque stelle. Quanto alla sinistra, è vero che non si va al governo minacciando nuove tasse, ma serve una linea chiara sui conti pubblici, con più equità fiscale; si appelli allo spirito repubblicano, qualcuno dovrà pagare di più, qualcuno di meno e se si parla chiaro la gente capisce.

La nostra classe dirigente, nei suoi residui cascami, pare neutrale, ma fra i pericoli per l’Europa provenienti dalla destra, e quelli per il portafoglio dalla sinistra, ha scelto. Non percepisce i rischi per una Ue che s’avviterebbe su sé stessa. Il favore del moderatismo italiano per la destra e per Meloni personalmente è evidente, ma il declino della Ue che conseguirebbe alla vittoria della destra farebbe felici gli autocrati, timorosi che il suo cattivo esempio contagi i loro sudditi. Bruxelles è un faro che i loro cittadini non devono vedere.

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