A guardare oltre confine, si vede un mondo che viaggia ad altissima velocità: investimenti giganteschi; accelerazione dell’innovazione tecnologica e delle sue applicazioni in tutti i settori; nuovi prodotti e servizi con un ciclo di vita sempre più breve; nuovi sistemi produttivi; grandi fusioni alla ricerca economie di scala; conglomerati che separano le loro attività per aumentare l’efficienza; riconversioni di imprese mature per ritrovare la crescita; crolli, ristrutturazioni e storie di fulmineo successo; e una costante ricerca della “next big thing”, cioè la tecnologia, il prodotto, l’idea imprenditoriale che farà la fortuna di chi l’avrà trovata. 

Poi si volge lo sguardo all’Italia, ed è come scendere dalla Ferrari e inforcare una bicicletta: storie vecchie di 15 anni, come il dissesto Mps e Carige, la discussione su Tim e la rete, le crisi dell’acciaio Ilva, dell’alluminio di Portovesme e di Alitalia-Ita.

Lungaggini e ruberie negli appalti in attesa dell’ennesima norma risolutiva. L’intervento salvifico dello stato per risolvere le crisi aziendali come in Saipem, Astaldi-WeBuild, Popolare di Bari, Autostrade, Trevi.

Una Borsa, a controllo pubblico, sempre più irrilevante per gli investitori nel mondo; illustri ottantenni che vogliono scalare Generali per sottrarla al “salotto buono” di Mediobanca, che nel frattempo si è svuotato.

Il duopolio Rai-Mediaset nell’èra di Netflix. Pirelli che celebra i 150 anni (e meno male che le imprese dovrebbero guardare avanti) in quella che in verità è la festa di addio per Marco Tronchetti Provera, in attesa delle decisioni sul futuro della società da parte dello State-Owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council, massimo organo della Repubblica Popolare Cinese per la gestione dell’economia, che indirettamente ne controlla il capitale (con il 46 per cento). 

I marchi famosi della moda ceduti uno dopo l’altro ai grandi gruppi stranieri. E le tante piccole e medie imprese di successo che non vogliono, o non sanno, crescere, diventate terreno di caccia del private equity.

Il governo in azione

Pare che il governo Draghi abbia davanti a sé una breve finestra per governare senza la soffocante ingerenza dei partiti. Potrebbe cercare di chiudere qualcuna delle annose questioni; e parrebbe intenzionato a farlo. In questo va sostenuto. 

La scissione della rete Tim e la fusione con OpenFiber è di fatto avviata, e non potrebbe esserlo senza il placet del governo. Un altro pezzo di economia che finisce in mano pubblica. E non si sa ancora chi deciderà il futuro di quel che resta di Tim: Vivendi, Kkr o un altro fondo, o chi altri? Ma la strada era ormai obbligata. Inutile rimuginare sul passato.

Ita airways è nata con soldi pubblici e la Commissione europea le ha imposto di partire con un numero insufficiente di aerei per essere redditizia (appena 52) di fatto obbligando lo stato a venderla.  

Ma lo dovrebbe fare comunque perché l’èra delle compagnie di bandiera è finita da un pezzo e la concentrazione è inevitabile, come da tempo è successo negli Usa, un mercato per dimensioni simile all’Europa, ma con solo tre compagnie internazionali e due low cost nazionali.

Per Ita airways, dunque, non c’è un futuro né in autonomia né come low cost. Sul tavolo c’è una manifestazione di interesse da parte di Msc e Lufthansa, soggetta a due diligence: va presa al volo cercando di chiudere al più presto.

È vero che la due diligence richiesta è spesso solo un modo per trovare elementi per negoziare al ribasso; ed è vero che ci vuole la gara richiesta dalla legge sulle privatizzazioni, ma sperare che Air France-Klm, unica alternativa concreta, ingaggi un’asta a colpi di rilancio, è come credere a Babbo Natale.

È vero che le ragioni di interesse di Msc (portare i turisti alle sue crociere, e crescere nel cargo con aerei che Ita non ha) sono poco credibili. Ed è vero che la richiesta di permanenza dello stato nel capitale assomiglia a una polizza assicurativa contro le cattive sorprese, ma quale è l’alternativa?

Andare avanti con l’irrealistica pretesa di crescere in autonomia (che l’acquisto miliardario di nuovi aerei per raddoppiare la flotta lascia intravedere), solo per dover vendere domani a meno di quanto si potrebbe incassare oggi?

Meglio chiudere prima che i partiti risollevino la testa e ricominci la chiamata alle armi a difesa degli interessi nazionali. Meglio perdere poco oggi per evitare di dover perdere tanto domani.

La banca-yogurt

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Lo stesso vale per Mps. Una banca in crisi è come uno yogurt scaduto: più passa il tempo, più irrancidisce. Una banca vende prodotti e servizi omogenei, e se perde un cliente in una fase critica, è quasi impossibile che lo recuperi o lo sottragga alla concorrenza.

In questa situazione, Mps non ha un futuro da sola, a maggior ragione dovendo collocare prodotti di terzi perché, cercando di sopravvivere, ha venduto le sue società-prodotto. Una situazione irreversibile: più passa il tempo, meno Mps vale.

Lo stato, azionista di controllo, è consapevole del valore negativo di Mps: tra aumenti di capitali preventivi, deferred tax assets, ammortizzatori per gli esuberi e acquisto di crediti deteriorati a prezzi superiori del mercato, deve pagare un compratore perché se la prenda.

Ma il “regalo”, o “dote”, che Unicredit ha richiesto dopo aver guardato nei conti della banca è risultato indigeribile. Unicredit, essendo l’unico compratore possibile, e non essendo un ente benefico, aveva il coltello dalla parte del manico in una trattativa a senso unico; ma è anche vero che gli amministratori di Mps, nominati dal Tesoro, avevano evidentemente rappresentato al loro azionista una situazione edulcorata della banca.

Bene dunque fa il Tesoro a rimuovere l’attuale consiglio e i suoi vertici per rimpiazzarlo, si spera, con uno che faccia rapidamente la ristrutturazione necessaria per rendere meno amara la medicina che lo stato dovrà comunque ingoiare.

Anche in questo caso, il governo deve fare in fretta prima che i partiti si ergano compatti a difesa dell’autonomia di Mps, rinviando la resa dei conti a spese delle finanze pubbliche. E si comincia già a sentire, in lontananza, il vociare della politica.

Per il governo Draghi questi sarebbero segnali significativi di voler chiudere con le deleterie prassi consolidate. Non rimetterebbero l’Italia alla volante di una Ferrari, ma almeno ci eviterebbero una rottura della catena della bicicletta, che ci costringerebbe a continuare a piedi.

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