Comprando Twitter (217 milioni di utilizzatori al giorno) Elon Musk ora possiede, in mezzo a tanti social, quello d’opinione e nella caccia al soft power delle idee s’aggiunge ai bilionari che l’hanno preceduto: Jeff Bezos che s’è preso il Washington Post sull’orlo dell’abisso, Soon-Shiong, sudafricano, che ha fatto il Los Angeles Times cosa sua, Laurene, la vedova benefattrice di Steve Jobs, che comanda su The Atlantic.

Musk super troll?

A differenza che con Bezos e gli altri nessun commentatore avanza l’idea che Musk agisca per munificenza e viene dato per scontato che ne combinerà qualcuna delle sue, come aprire il primo account con residenza in Marte. Si pensa, comunque, che ne verranno fuori molti soldi.

Va detto che a seguire tanti articoli della stampa americana Musk sembra un brutto ceffo, che pencola fra la destra e la sinistra e accumula le fortune grazie ai contributi a fondo perduto del governo federale e di alcuni stati dell’Unione.

C’è poi chi ricorda i suoi tweet passati e lo considera un avventuriero social, pari se non superiore a Donald Trump, pronto sia all’aggiotaggio che all’insulto più volgare, come quando ha twittato dando a Bill Gates del boner killer, che deprime l’entusiasmo in ogni tipo di rapporto. Pochi, a dire il vero, sarà perché ormai ci abbiamo fatto il callo, sembrano angosciati dall’accaparramento plutocratico delle piattaforme di comunicazione pubblica, con buona pace del  gioco di pesi e contrappesi sociali, economici ed istituzionali su cui si fonda la liberal democrazia dell’Occidente.

La vera polemica è stata, piuttosto, scatenata dalla questione del cosiddetto free speech.

Free speech e censura

Musk dichiara (e fino a prova contraria, prendiamo per buono quel che dice) di volere un Twitter che adotti il “lasciar dire” sopprimendo la censura (che nei social si chiama “moderazione”), rovesciando come un guanto le politiche adottate fino ad ora da Twitter e gli altri social. Da qui il timore che i social tornino allo stato selvaggio dei primordi dando via libera all’insulto e alle molestie, ovviamente nei confronti dei soggetti che più vi sono esposte: le donne per la diffusa misoginia; le minoranze e le etnies contro cui il suprematismo bianco abbaia e compra armi.

Siamo, insomma, alle prese con la solita questione: cosa s’intende per libertà d’espressione? È solo una “libertà negativa”, che non vuole intrusioni del Potere, o è anche “libertà positiva” che richiede dal Potere le garanzie ambientali per una comunicazione paritaria, al punto dal veder bene anche la censura verso i lupi che pretendono la libertà di fare strage delle pecore?

Il punto è che nell’ambiente social l’antinomia fra free speech e censura non può essere risolta. Per questo il povero algoritmo che rastrella parole odiose e pose provocanti finisce col ferire chi viene censurato mentre chi patisce le molestie pensa che la macchina sia d’aiuto a chi le scrive.

Il “contenuto” non è il singolo post, ma il flusso del sistema

Per uscire dallo stallo, conviene allargare lo sguardo all’intero processo di generazione dei contenuti social considerandoli non uno per uno, ma come il punto terminale di un processo nato storto, per cui non è possibile che i suoi contenuti siano dritti.

La stortura è radicata fin nelle schede anagrafiche delle utenze dove tutto si confonde: gli umani e i robot, le identità “vere” (più o meno mascherate) e gli “anonimi assoluti” registrati con Sim usa e getta al fine di mordere e sfuggire. In tanti lo diciamo, da tanto tempo ormai, ma altrettanti pensano che siano baggianate, oltretutto pericolose per i ricavi social che di natura non guardano al sottile.

Ebbene, con sorpresa ora scopriamo questi sono i social attuali come li vede Musk, posto che nel tweet in cui chiarisce, pochi giorni or sono, quel che intende fare, lega insieme le tre scelte capitali: “free speech” (il lasciar dire, nel rispetto delle leggi), “defeating the spam bots” (cioè escludere le utenze robot che instancabilmente manipolano le cerchie) e “authenticating all humans”, ovvero mantenere solo gli account dall’identità verificata (non importa se esibita o coperta da pseudonimo) a scapito di chi pretende un anonimato effettivo e garantito.

E qui notiamo che, affrontando il problema da ogni lato, s’affloscia il dilemma fra espressione libera e censura. Ci chiediamo infatti quanti testi orrendi verrebbero twittati o infilati in Facebook se di ognuno fosse autentico, chiaro e, all’occorrenza, identificabile l’autore, se i post sconsiderati esponessero al ludibrio chi li scrive ancor più essendo esposto al rischio di pagare per i danni che combina? E quanto si diffonderebbero le propagande e le molestie delle Bestie politiche e del marketing senza gli eserciti di robot creati dalla forza del denaro? Cosa resterebbe, in sostanza, da censurare una volta che il sistema fosse condotto a dinamiche e diffusione volte al giro degli interlocutori “naturali” togliendo dall’algoritmo le impostazioni premiano l’enfasi e la rabbia?

Trasparenza

La parola magica, in sostanza, è “trasparenza”, come sostiene un’esperta vera come Frances Haugen, ex addetta all’algoritmo Facebook e guida tecnica dei legislatori Usa che sul  New York Times usa parole cristalline per lodare l’Unione europea perché col Digital Services Act, ha scelto proprio questa via, a partire dall’obbligo dei Big social di sollevare il sipario sugli algoritmi che filtrano e veicolano quello che socializziamo con lo smartphone.

Così il fuoco potrà essere concentrato sulle cause dei problemi, vale a dire i criteri che spingono le varie Intelligenze Artificiali social a inflazionare i traffico, e massimizzare i ricavi a spese del pubblico interesse. Non richiediamo del resto a Big Pharma di conoscere a fondo contenuti ed effetti dei prodotti prima di consentirne l’arrivo in farmacia?

Il vento comincia forse davvero a tirare in questa direzione e, trasparenza per trasparenza, non si può fare a meno di notare che Musk, nel medesimo tweet di programma già citato, dichiara di voler rendere l’algoritmo di Twitter open source, cioè “leggibile” non solo dagli esperti, ma anche in qualche misura dall’utenza. 

Come se,  prima di lanciarsi nell’offerta d’acquisto di 54 miliardi abbia ascoltato molte voci, ricavandone l’impressione che il primitivo mondo social, con i suoi originari Capitani sia al tramonto. In parte per la propria usura, e molto per le iniziative dei parlamenti e dei governi (compreso quello cinese a modo proprio) che sanno ormai dove mettere le mani.

Un cruccio per chi paventa la fine di una pacchia, per altri una flebile speranza che gli fa tollerare anche lo sfoggio bilionario. Almeno fino a quando promesse non si saranno confrontate con i fatti.

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