Un semplice accordo sul nuovo target di spesa non basterà a scongiurare altre crisi future sulla redistribuzione del "fardello” della difesa dell’Europa, se non sarà subito seguito da scelte conseguenti e credibili da parte dei diversi paesi Ue
La riunione dei ministri della difesa della Nato tenutasi giovedì a Bruxelles – oltre a nominare il nuovo comandante militare supremo, il generale americano (di chiare origini est-europee) Alexus G. Grynkewich – ha confermato che al summit previsto all’Aja fra un paio di settimane i 32 alleati dovrebbero adottare un nuovo target di spesa nazionale pari al 5 per cento del Pil.
Il target precedente – il 2 per cento fissato nell’ormai lontano 2014 – è infatti “scaduto” l’anno scorso e, se è stato appena rispettato come media complessiva, non lo è ancora da paesi come Belgio e Canada, mentre Italia e Spagna si sono impegnate a farlo entro quest’anno.
Il nuovo target includerebbe tuttavia due “cesti” distinti: il primo, pari al 3,5 per cento del Pil, riguarderebbe le voci più convenzionali (core) dei bilanci della difesa, e riporterebbe la spesa militare al livello dei primi anni Ottanta (prima cioè dell’avvento di Gorbaciov); il secondo, pari all’1,5, coprirebbe invece gli investimenti in infrastrutture critiche e capacità cyber, la cui importanza è cresciuta anche sull’onda del conflitto in Ucraina.
La decisione finale è stata rinviata al summit, anche perché alcuni dettagli sembrano ancora da definire, a cominciare da cosa esattamente includere in ciascuna categoria (ad esempio, gli aiuti bilaterali all’Ucraina) per finire con la “scadenza” per il rispetto del target (si parla del 2032, ma alcuni alleati avrebbero chiesto maggiore discrezionalità) e le eventuali tappe intermedie.
Da un punto di vista strettamente politico, questa “soluzione 5 per cento” potrebbe contribuire a disinnescare in anticipo un’altra potenziale crisi transatlantica (oltre a quella in corso sui dazi): coincide infatti con la richiesta espressa da Trump, viene incontro alle esigenze di flessibilità di alcuni alleati europei, e proietta il target su un orizzonte temporale che andrà comunque al di là del mandato dell’attuale amministrazione americana. Al momento, del resto, nessun paese Nato potrebbe rispettare un eventuale 5 per cento “secco” (solo la Polonia lo avvicina, e gli stessi Usa sono al 3,4), e in ogni caso l’ordine di crescita della spesa è tale da non essere realizzabile in tempi brevi.
Sarebbe saggio, comunque, non farsi troppe illusioni: un semplice accordo sul nuovo target non basterà a scongiurare altre crisi future sulla redistribuzione del “fardello” della difesa dell’Europa – molti ancora ricordano quella dell’estate 2018, al primo vertice Nato con Trump – se non sarà subito seguito da scelte conseguenti e credibili da parte degli europei. Da un punto di vista strettamente militare, tuttavia, non mancano le incognite. Decidere quanto e come spendere per la difesa non è una scienza esatta, e trarre lezioni immediate da quanto si è visto finora in Ucraina (o altrove) è utile ma rischioso, anche perché quelle “lezioni”, a tutt’oggi, non sono univoche. Le scelte di investimento possono insomma variare anche sensibilmente – come dimostrano in fondo i due “cesti” – mentre la relativa scarsità di risorse di bilancio e la concorrenza di altri tipi di spesa pubblica (talvolta più popolari) rendono le decisioni particolarmente complesse.
Molto dipende inoltre dalla percezione pubblica della necessità di spendere. Se l’ideologia Maga aiuta a giustificare i mille miliardi di dollari stanziati da Trump nel «big, beautiful bill» di bilancio da poco approvato (per un voto) dalla House of Representatives per il prossimo anno fiscale; se considerazioni di credibilità strategica e status internazionale facilitano, o addirittura impongono, le scelte di investimento di Londra e Parigi; e se la prossimità della minaccia russa (convenzionale e ibrida) ha già spinto i paesi baltici e nordici e la Polonia ad aumentare in modo massiccio gli stanziamenti militari, è chiaramente più difficile convincere chi si sente – a torto o a ragione – meno esposto.
Per paesi come l’Italia o la stessa Spagna, insomma, il discorso andrebbe forse impostato anche in altri termini: la minaccia russa c’è, eccome, anche se non è altrettanto tangibile rispetto ad altre parti del continente; l’obiettivo di investire meglio (e assieme) è comunque ragionevole, anche in termini di politica fiscale e industriale, e del resto la sicurezza come “bene pubblico europeo” (con la solidarietà collettiva che ne deriva) dovrebbe avere lo stesso valore per tutti. Ma a guidare le scelte dei paesi più esitanti dovrebbe forse essere anche la prospettiva di un progressivo disimpegno militare americano dall’Europa (fianco Sud dell’Alleanza compreso): un disimpegno che potrebbe continuare ben oltre Trump e che potrebbe anzi venire all’ordine del giorno già nei prossimi mesi.
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