Nelle tante pagine dei giornali dedicate a questo singolare interregno americano, si immagina che presto alla vittoria di Joe Biden corrisponderà la sconfitta di Donald Trump.

A partire da qui, viene misurato il costo della resistenza trumpiana per la tenuta del sistema e per l’ordine pubblico, e semmai ci si interroga sulla gestione futura del patrimonio politico di Trump (candidatura nel 2024, costruzione della carriera della figlia e genero, creazione di un nuovo network, etc etc.?). Così ragionando, seguiamo una sana logica democratico-elettoralistica.

Ma proviamo anche a guardare le cose con gli occhi di Trump (e di milioni di suoi fedeli), e consideriamo che Trump non possa, né sappia, né abbia alcuna convenienza a, perdere nel senso di riconoscere in un modo o nell’altro la vittoria di Biden.

Come pensa il presidente 

Trump ha vinto di parecchio, «by a lot», un parecchio che forse rasenta lo stesso 80 per cento che avrebbe premiato Lukashenko in Bielorussia. Non trascuriamo il fatto che già da tempo Trump ha detto che se per ipotesi il ballot avesse dichiarato vincitore Biden avrebbe voluto dire soltanto che le elezioni sarebbero state truccate. Un mettere le mani avanti, uno sbruffone? Non solo. Trump può essere un narcisista disturbato, come molti leaders duceschi, ma la cosa non deve distrarci dall’osservare logiche ben più diffuse oltre la sua mente. Nella logica di Trump le istituzioni sono infatti una occasione rituale per una sua acclamazione plebiscitaria e valoriale.

Non è certo il primo a pensarla così. La cosa anzi è cominciata tanto tempo fa, quando, dichiarata la sovranità popolare, ovvero di un popolo universale fatto di eguali, ben presto ci fu chi ne approfittò. A metter fine a dieci anni turbolenti ci pensò Napoleone nel 1799. Imposta una sua nuova costituzione con un atto di forza, la volle sottoporre all’approvazione popolare. Il 7 febbraio 1800 furono proclamati i risultati: su 3.012.569 voti, v'erano stati 1.562 contrari e 3.009.445 favorevoli. Risultati simili si ebbero quando Napoleone divenne console a vita e poi imperatore. Passato mezzo secolo, suo nipote, Luigi Napoleone, eletto presidente a suffragio universale, fece approvare anche lui una nuova costituzione, questa volta con 7.439.216 voti contro 640.757 contrari. “La natura della democrazia, dichiarò, è di personificarsi in un uomo”.  Si dichiarò subito favorevole al «popolo», alla «massa», contro le «caste» e le organizzazioni politiche: “Oggi, il regno delle caste è finito, si puo’ solo governare con le masse”. Quante volte l’avremmo sentita questa?

Le acclamazioni plebiscitarie si avvalgono di procedure e conteggi, che però ritengono comunque false di fronte a un segno di Dio (o alla volontà vera del popolo). Né le volontà superiori possono essere alterate dai “fatti” (in questo caso, il numero di voti certificati), che anzi sono la prova provata della congiura. Così funziona la logica negazionista, per la quale i campi di Auschwitz, che sono lì, nella loro fattuale oggettività, altro non sono che la conferma della grande menzogna: i sionisti hanno costruito le finte prove… Allo stesso modo, le fotografie degli astronauti sulla luna provano che non ci sono stati.

C’è di mezzo la diffusione dei media, la “videocrazia”, e con essi le fake news, il “face back loop” e tante altre cose. Ma ben prima c’è la logica del potere autoritario. Quando nell’ Italia del 1929 si votò con una lista unica, da approvare o respingere, furono seguite scrupolosamente le procedure democratiche, la campagna elettorale, i comizi, il volantinaggio, gli scrutatori ai seggi. I sì furono il 98,33 per cento, i no l’1,57 per cento. Gli storici ammettono che il fascismo godesse di un largo consenso, ma ci vedono anche lo zampino di brogli e forzature. Ma soprattutto gli organi del regime si preoccuparono di quel dissenso, tra l’altro concentrato in alcune zone, e vollero appurare… Da allora, non occorre enumerare i molti dittatori – diciamo meglio, tutti – che nel Novecento legittimano il loro dispotismo col ricorso a qualche urna popolare. Arriviamo così a Lukashenko, l’altro che ha vinto «by a lot».

Rientrare nelle istituzioni?

Gli stati Uniti non assomigliano proprio in nulla alla Bielorussia, perché esiste un solido tessuto di istituzioni democratiche che salveranno il risultato (Ci sarebbe semmai da domandarsi come mai gli americani si sono affidati democraticamente a un leader che in tante cose ha la mentalità di un Lukashenko, ma questo lo chiediamo ai politologi). Ma appunto torniamo alla mentalità di Trump. Ammettere che Biden ha vinto le elezioni sarebbe una clamorosa inversione dell’intero suo percorso, umano e politico, che è stato interamente extraistituzionale, anzi antiistituzionale, e non puo’ “rientrare nelle istituzioni”, come sarebbe ammettere che a decidere sono i voti. Insomma la sua non è una certezza che possa essere smentita dai tribunali, o dai calcoli dei voti. 

Allora? Escludiamo lo scontro armato, nelle piazze. Disordini ce ne saranno, ma non rilevanti. La prima ipotesi per la quale le istituzioni avrebbero confermato la paranoia di Trump è sfumata: sarebbe stato se il voto lo avesse premiato. Ce n’è una seconda, anche se molto improbabile: che alcuni stati repubblicani tentino di modificare il voto dei loro delegati all’electoral college. Fuori da questi casi, perché non prendere in considerazione l’ipotesi che Trump, continuando a dichiararsi vittima di una congiura, trovi il modo di lasciare la Casa Bianca da vincitore, per esempio dimettendosi? Non sarebbero dimissioni da sconfitto, come quelle di Richard Nixon, che nel 1974 anticipò l'impeachment, ma dimissioni 'in crescendo' , con proclama. Toccherebbe allora al vicepresidente Mike Pence…

Magari qualche consigliere lo consiglierà di farlo. Toccherebbe allora a Pence gestire la transizione, e l’inviato del Signore, l’uomo del popolo, potrebbe ancora aleggiare su di noi per qualche tempo.

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