Ormai non fa quasi più notizia, e invece bisogna continuare a parlarne: l’inflazione ha segnato un nuovo record, a giugno 8,6 per cento rispetto a un anno fa, ancora più che l’8,1 per cento di maggio. E non è per niente una buona notizia. Per varie ragioni.

La prima è che la situazione continua a peggiorare, mentre da mesi la Banca centrale europea continua a promettere che migliorerà e che l’inflazione annuale del 2022 sarà intorno al 7 per cento. Ma non si vede alcun segnale di ritorno alla normalità.

La seconda ragione di preoccupazione è che il problema non riguarda soltanto l’energia. L’aumento della componente energetica dell’inflazione è quello predominante, 41,9 per cento in un anno. Ma se consideriamo l’inflazione di tutti gli altri settori, è comunque troppo alta: quella core, cioè depurata delle componenti più volatili come l’energia e il cibo, a giugno era del 3,7 per cento. Quasi il doppio del famoso 2 per cento che è l’obiettivo della Bce.

Questo non significa che si sia innescata la spirale prezzi-salari, cioè che i rincari temporanei finiscano per diventare permanenti perché incorporati nella contrattazione, ma che anche senza considerare la crisi energetica ci sarebbero ampie ragioni per una politica monetaria restrittiva. Cioè per alzare i tassi di interesse subito, col rischio di spegnere definitivamente la ripresa post-Covid fondata anche sulle politiche straordinarie della Bce.

Fabio Panetta, membro italiano del board della Bce, ha detto che l’approccio alla stabilità dei prezzi non cambierà, cioè che Francoforte continuerà con la sua politica graduale: da ieri limitazione agli acquisti di titoli da parte della Bce, poi aumento del costo del denaro dello 0,25 per cento a luglio e altra stretta a settembre, «vista l’incertezza prevalente, la normalizzazione deve rimanere graduale», dice Panetta.

Il problema è che l’incertezza è data anche dalle scelte della Bce che finora ha sbagliato tutte le sue previsioni sulle dinamiche dell’inflazione e ha disatteso gran parte dei suoi impegni.

Col risultato che è difficile per gli investitori ancorare le proprie aspettative, cioè incorporare nei prezzi di mercato attuali le variazioni future attese dei tassi di interesse e delle variabili dell’economia da esse condizionate.

Resta ancora da capire nei dettagli come funzionerà la misura “anti frammentazione”, cioè l’impegno ad acquisti asimmetrici (concentrati sui paesi come l’Italia che ne hanno più bisogno) di titoli di stato nel caso gli spread dovessero allargarsi troppo.

La Bce ha  già strumenti per gestire crisi del debito, ma non sembra volerli usare, e c’è pure il fondo salva Stati Esm, eredità della crisi di dieci anni fa, a disposizione dei paesi con difficoltà ad accedere al credito sul mercato.

 Il fatto di dover introdurre un ulteriore misura – non si sa bene se con qualche condizionalità, cioè richiesta di impegni abbinata – è un livello di complicazione ulteriore. 

Se lo strumento è troppo limitato, i mercati scommetteranno sul ricorso alle altre opzioni, più efficaci ma meno popolari.

Un ulteriore elemento di disturbo sono le politiche anti-inflazione decise dai vari governi dell’eurozona: alcune sono trasferimenti a sostegno dei redditi bassi, altre tengono artificialmente bassi i prezzi per tutti così che la domanda resta invariata. Come nel caso del governo Draghi che riduce le accise sulla benzina.

Alcune politiche anti-inflazione rendono quindi difficile percepire la reale gravità della situazione e adeguare le aspettative, in una spirale di incertezza che lascia un solo punto fermo: i prezzi continueranno a salire.

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