Ma c’è o non c’è la trattativa? Qualcuno si preoccupa di arrivare a un cessate il fuoco o il conflitto in Donbass può concludersi soltanto con un regime change a Mosca, e la caduta di Vladimir Putin, o un escalation senza limiti verso la guerra nucleare?

I segnali dal campo non aiutano a decodificare cosa sta succedendo: mentre il presidente Volodomyr Zelensky  da un evento di Chatam Huouse sembra proporre un’ipotesi di compromesso, che prevede di lasciare la Crimea alla Russia, l’Ucraina lancia un’offensiva nel Nord est dell’Ucraina che indica l’altro lato di quella proposta: riconquistare il Donbass, la regione che ha visto l’inizio della guerra con la proclamazione delle repubbliche filo-russe di Donetsk e Lugansk. 

Lo schema Zelensky sarebbe quindi un ritorno al contesto pre-guerra, al 24 febbraio 2022, cioè una sostanziale sconfitta del presidente russo Vladimir Putin che non potrebbe rivendicare alcun successo, visto che la Crimea la controlla dal 2014, dopo un referendum manipolato dalla Russia che l’ha separata dall’Ucraina, nella sostanza anche se non nella forma.  

Nel frattempo, l’Unione europea sta perdendo la capacità di incidere sul fronte economico della guerra: il nuovo pacchetto di sanzioni che doveva riguardare anche il petrolio russo è slittato, formalmente per l’opposizione guidata dall’Ungheria del filorusso Viktor Orbán.

Nella sostanza la Germania teme l’embargo immediato del petrolio, la Francia non lo chiede perché il presidente Emmanuel Macron ancora ambisce a essere il grande mediatore della crisi, e l’Italia è più ambigua di tutti, con l’Eni e il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani inclini ad adempiere alle pretese di Putin di pagare il gas secondo le modalità richieste da Mosca che assicurano al Cremlino la disponibilità delle riserve in valuta estera (oltre 700 milioni di euro al giorno).

Un sanguinoso stallo, durante il quale si continua a morire. Alcuni indizi di quello che sta succedendo e del livello meno visibile del negoziato si trovano però nell’audizione in parlamento del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, di due giorni fa.

Intanto, apprendiamo che la Russia è più debole che all’inizio della guerra, ma nella regione del Donbass contra su 80 battlegroup per un totale di 130.000 uomini, 50-60.000 in meno rispetto a quelli ammassati al confine prima della guerra, ma comunque tanti. L’attesa del governo italiano non è affatto per una sconfitta dell’armata russa sul campo, e neppure per una sorta di nuovo status quo: «E’ possibile, e in parte sta già avvenendo, che il conflitto si intensifichi ulteriormente nei prossimi giorni», ha detto Guerini.

L’intensità non si misura in vittime, ma nel tipo di armi: fin dall’inizio della crisi, la Russia agita la minaccia nucleare, che il governo italiano sembra prendere sul serio, visto che come esempio di escalation Guerini ha citato il test del missile intercontinentale Sarmat, che ha percorso «una traiettoria di 5.000 chilometri sino all’estremo oriente russo, nel poligono di Kura».

Per dare un’idea: tra Mosca e Roma di chilometri ce ne sono soltanto 3.000. Non è il tipo di arma che si usa in Ucraina.

Guerini ha poi citato anche «l’intensificazione delle esercitazioni di prontezza nucleare, nell’enclave di Kaliningrad».

Il portavoce del Cremlino, Dimitry Peskov, ieri ha iniziato a minacciare la Polonia, considerata «apertamente ostile» e una potenziale minaccia «all’integrità territoriale dell’Ucraina» (politici polacchi parlano di zone storicamente polacche).

Il nuovo conflitto

I passi, rapidi e tutti nella stessa direzione, vanno verso un allargamento del conflitto e un potenziale coinvolgimento occidentale diretto.

Quali armi stia fornendo esattamente l’Italia all’Ucraina è coperto da segreto, ma Guerini ha fornito un dettaglio importante: «Sulla base di quanto indicato dalla legge, e in relazione all’evoluzione sul terreno, l’impegno italiano continuerà a supportare l’Ucraina nella sua difesa dall’aggressione russa anche con dispositivi in grado di neutralizzare le postazioni dalle quali la Russia bombarda indiscriminatamente le città e la popolazione civile».

Sarà forse un’ambiguità non voluta, ma il riferimento è alla Russia, non all’esercito russo in territorio ucraino, e da settimane si hanno notizie di quelli che sembrano attacchi (che Mosca non conferma e non denuncia) ucraini in territorio russo. Avvengono con armi occidentali?

La notizia del New York Times che l’intelligence americana aiuta l’esercito ucraino a uccidere i generali russi ha abbattuto un’altra delle fragili barriere concettuali che separano una guerra combattuta “dagli ucraini” da una guerra combattuta “dall’occidente attraverso gli ucraini”.

Oltre al livello Nato e quello americano, c’è anche un coordinamento militare dell’Ue che affianca al miliardo e mezzo fornito attraverso la European Peace Facility (finanziamenti militari) una «clearing house, ossia di supporto organizzativo per tutte le attività a favore del popolo ucraino».

In questo quadro non si vede da dove dovrebbe partire il negoziato, anzi, Guerini si è premurato di chiarire al parlamento che il governo italiano non considera la Russia di Putin un partner negoziale credibile: a poche settimane dall’attacco, il 15 dicembre 2021, Mosca proponeva una bozza di accordo internazionale «sulle garanzie di sicurezza» a Stati Uniti e Nato che secondo Guerini puntava a «separare Stati Uniti e alleati Nato con atti disgiunti e la non inclusione della Unione europea», una manovra diversiva mentre preparava l’invasione dell’Ucraina. Mentre il piano diplomatico continuava, con la risposta della Nato e Usa il 26 gennaio, la Russia ha scelto la guerra.

Non sfugge il motivo di richiamare quegli eventi nel contesto della presentazione delle scelte militari dell’Italia a sostegno di Kiev: il messaggio è che con Putin non si può trattare. Ma se l’obiettivo è destituirlo, con una spericolata operazione di regime change, il successo sembra lontanissimo, ammesso che di successo si possa parlare, e i rischi di escalation verso il nucleare molto elevati.

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