Alcuni lo battezzano “effetto sciame”. Corrisponde allo spostamento cospicuo di voti verso una lista-partito-movimento nell’ultima settimana, al massimo le ultime due, della campagna elettorale.

Può accadere che per mesi i sondaggi rafforzino tendenze all’apparenza stabilizzate salvo assistere nel rettilineo finale a uno scarto improvviso che proietta uno dei competitori diversi punti sopra le previsioni.

Si tratta di un fenomeno registrato nelle due ultime consultazioni politiche. In entrambi i casi lo “sciame” ha premiato il Movimento Cinque stelle. Nel 2013 consegnando a Grillo oltre otto milioni e mezzo di voti (il 25,56 per cento alla Camera), cinque anni dopo spingendo lo stesso movimento sopra il 32 per cento.

Anche dopo il recente turno amministrativo col buon risultato del Pd e del centrosinistra nella sua versione civica, vi è chi prevede per le politiche dell’anno prossimo una dinamica dello “sciame”, ma questa volta nell’incertezza del soggetto che potrebbe goderne.

La tesi è che assisteremo di nuovo a un balzo inaspettato verso e magari oltre il trenta per cento: la sfida vivrà qui, se a tagliare il traguardo sarà il partito di Giorgia Meloni o noialtri del Pd. Il che basterebbe a dire dell’importanza dei prossimi mesi con le incognite di un’agenda sociale scandita da bollette raddoppiate, un’inflazione da anni Ottanta.

Il punto è se da sinistra tocca solo accogliere la previsione col tanto di scaramanzia o se non si possa, muovendo dalla probabilità che l’effetto “sciame” vi sia, attrezzarsi al meglio per intercettarlo.

Errori da non ripetere

Almeno tre raccomandazioni, o impegni, valgono la pena di non cadere nel vuoto. Primo: non replicare la mancata campagna elettorale del 2013.

Allora il Pd reduce dalla stagione Monti-Fornero scelse la via della responsabilità. Il suo vertice si propose come la forza che doveva raccontare agli italiani la verità del momento. Niente promesse o fughe dalla realtà: il paese usciva da un tornante complicato e il centrosinistra (che il governo Monti aveva sostenuto con assoluta lealtà) partiva favorito nei sondaggi.

Il risultato, invece, fu un sostanziale pareggio con Beppe Grillo nelle urne, ma grazie agli italiani all’estero, lo scatto di un generosissimo premio di maggioranza. Troppo poco per dare vita a un governo di parte, ma sufficiente a perseguire la via degli esecutivi di medie e larghe intese.

Se dopo Draghi l’intero sistema politico non sarà eguale a prima, la sola cosa che a sinistra non si deve fare è puntare unicamente sulla carta della responsabilità o della corretta gestione dei fondi del Pnrr.

Assieme a quel messaggio la sfida con la destra si giocherà sul terreno della “speranza”, di una capacità nel descrivere il modello di redistribuzione delle risorse e giustizia sociale che sancirà l’identità di una offerta di governo.

L’editore di questo giornale, Carlo De Benedetti, in una lettera aperta al segretario del Pd il concetto lo ha espresso con efficacia: presentatevi (presentiamoci) agli italiani con un programma indispensabile nella vita di tanti e che fondi sulla lotta a disuguaglianze sempre meno sostenibili e più indecenti la conquista di un consenso altrimenti dirottato verso l’astensione o la destra.

Qui entra in scena il secondo impegno. Ha ragione Romano Prodi, non per caso l’unico che per due volte la destra è riuscito a battere nei seggi e non nella manovra di palazzo: la prossima campagna elettorale si vincerà riscoprendo un moto vastissimo di partecipazione dal basso. Che poi fu la ricetta preziosa del primo Ulivo.

Una semina sul triplo versante (lavoro, impresa, cultura) che in un pugno di mesi riuscì a scuotere la pianta delle disillusioni – ce n’erano anche allora – dando vita a una mobilitazione di cittadini (comitati civici per “l’Italia che vogliamo”, associazioni, movimenti tematici) capace di moltiplicare i contenuti portanti di quella stagione in uno spirito di appartenenza destinato a fare la differenza con un avversario ricco, ricchissimo, di mezzi finanziari e reti televisive, ma carente sul versante di una piena cittadinanza politica.

Mai più larghe intese

Terza e ultima raccomandazione. Enrico Letta lo ha detto a più riprese e senza margini di ambiguità: la stagione delle larghe intese si chiude col governo in carica.

Concetto tanto più da tenere in conto se pensiamo che quasi sicuramente il voto per il futuro parlamento si vedrà appaiato a quello per il governo di alcune regioni tra le più importanti e popolose.

Parliamo di una Lombardia forse per la prima volta “espugnabile” dopo qualche decennio di dominio incontrastato della destra a trazione leghista e di quel Lazio dove l’alleanza tra Pd e Cinque stelle ha conosciuto una sperimentazione precoce e in apparenza tuttora in salute.

Ma tornando all’impegno del segretario del Pd, per il dopo, noi – almeno noi – non siamo disponibili a proseguire in una logica che rimuove la natura di una democrazia dell’alternanza dove chi ottiene il consenso più alto esercita il diritto e l’onere a governare mentre gli altri si attrezzano a svolgere il compito di una opposizione incalzante.

 L’idea cara a qualcuno di scommettere sull’ennesima impasse così da veder sorgere l’alba di un altro esecutivo tecnico o di responsabilità nazionale temo non tenga in alcun conto uno scenario internazionale dove le democrazie dell’occidente, a cominciare da quella americana, soffrono da anni l’urto di eventi (la crisi, la pandemia, la guerra) che ne indebolisce la tenuta.

Per contenere derive regressive anche sul terreno dei valori, è necessario che milioni di cittadini tornino a sentirsi partecipi e protagonisti della scelta del “loro” governo.

Anche tutto ciò entrerà nell’agone politico tra pochi mesi e, come si dice, prepararsi con un buon bagaglio è la premessa per arrivare in fondo.

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