Bocciata senza pietà, sia dal governo che dall’opposizione, la proposta di mini-patrimoniale proposta da alcuni parlamentari del Pd e di Leu. L’emendamento è stato bocciato per mancanza di coperture, motivazione che è ai proponenti è sembrata quasi una provocazione. La sola idea è stata giudicata un affronto («Una rapina nei conti corrente degli italiani», ha detto l’opposizione; è solo la pensata di qualche singolo deputato, si è smarcata la maggioranza) a fronte di una situazione economica, quella italiana, che vede un livello di disuguaglianza come raramente si è avuto nella storia.

La disuguaglianza può trasformare il sistema democratico in un fantoccio dietro al quale è nascosto il medioevo, perché come giustamente hanno detto i costituenti, la democrazia è compiuta se tutti hanno accesso agli strumenti per poter esercitare i propri diritti e se le ricchezze sono proporzionalmente tassate secondo il principio della progressività: più sei ricco, più paghi. Semplice semplice.

Eppure, ogni volta che qualcuno sommessamente propone uno strumento che riporterebbe il paese reale più vicino ai dettami costituzionali, si alzano levate di scudi.

Come se non ci fosse alcuna urgenza nel rimediare ai danni fatti negli scorsi decenni quando la progressività fiscale è stata sempre più ridotta a vantaggio dei grandi capitali e delle grandi fortune accumulate da pochi. Anzi da pochissimi, come riportano le statistiche. Che, impietose, ci dicono che se sommiamo i “patrimoni” dei sei milioni di italiani più poveri, la cifra ottenuta non raggiunge il patrimonio dei tre italiani più ricchi (per la cronaca: Giovanni Ferrero, Leonardo Del Vecchio, Stefano Pessina).

I poveri dimenticati

In Italia i poveri non sono pochi: la povertà assoluta, quella che non ti permette di mantenere uno standard di vita accettabile prima della pandemia coinvolgeva circa il 7 percento delle famiglie e quasi l’8,5 percento degli individui, cioé più o meno i sei milioni che sommati non fanno i tre Paperoni. La povertà relativa, cioé quella che rende difficilmente fruibili i beni e i servizi necessari a una vita dignitosa, coinvolgeva nell’era pre-Covid circa l’11 percento delle famiglie.

Le statistiche proseguono: il 20% degli italiani possiede circa il 70 percento della ricchezza nazionale mentre il 60 percento più povero si accontenta del 13 percento della ricchezza totale italiana. Il 10 percento più ricco possiede 6 volte tanto potere economico della metà meno ricca del Paese.

Negli ultimi vent’anni, i primi di questo nuovo secolo, la forbice tra ricchi e poveri si è sempre più allargata (alla faccia della Costituzione italiana) perché la quota del 10 percento più ricco è cresciuta del 7,6 percento mentre la “ricchezza” posseduta dalla metà più povera degli italiani è diminuita ben del 36,6 percento.

Ma anche il “sogno americano” si è sempre più allontanato: i ricchi sono i figli dei ricchi, e i poveri son figli dei poveri. Quello che viene definito “ascensore sociale” è nel nostro paese bloccato da decenni, mentre gli stipendi si sono invece mossi, ma verso il basso e soprattutto per i giovani. In Italia oltre il 3 percento degli occupati sotto i 30 anni guadagnava, prima della pandemia, meno di 800 euro lordi al mese.

Eppure, se qualcuno prova a mettere in discussione queste clamorose ingiustizie, anche se solo per dare un senso di solidarietà tra conterranei in un momento di estrema difficoltà, viene preso a male parole e tacciato di bolscevismo.

In mesi in cui nuove e estreme povertà dilagano al punto che nemmeno le istituzioni riescono più a tracciarle e sostenerle, e si chiede al terzo settore di organizzare raccolte di cibo e distribuzioni straordinarie di pacchi alimentari, ci si aspetterebbe qualche cosa di meglio dalla classe dirigente del nostro Paese.

(Fonti: rapporto Global Wealth Report, Credit Suisse 2019 e dati Oxfam)

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